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Cinema e Sport – 2011
Pubblicato sulla rivista Eidos cinema e psyche, n. 21 del 2011.
Nel mondo antico l’arte era definita come un insieme di regole atte a dirigere una attività umana. Dal carattere assai generale di questa definizione, derivava che – almeno fino a Platone – al criterio dell’arte sono riconducibili non solo la poesia e le cosiddette “arti figurative”, come la pittura e la scultura, ma anche la politica, la medicina e la stessa filosofia. Esempio fondamentale è la politica e con essa anche la guerra, che in più contesti, come nel dialogo platonico intitolato a Protagora è qualificata come “arte regia”. La medicina è arte, secondo la definizione rinvenibile nel Corpus Ippocraticum. Arte è la stessa filosofia, poiché conduce il ragionamento al suo più alto grado, sia nel Fedro di Platone, sia nella Metafisica di Aristotele. Da qui scaturisce il fatto che il termine greco per indicare l’arte, ovvero tèchne, comprende il riferimento a ciò che noi chiamiamo tecnica. Analogamente, in latino, ars designa tanto le attività artistiche, quanto quelle “tecniche”. In sostanza, è accertato che, per la cultura classica greca e latina, si intende per arte non solo la produzione di oggetti esteticamente privilegiati, ma più in generale qualunque attività umana che si svolga conformemente a delle regole.
Lo sport, nella sua accezione più ampia, impone delle precise regole ed è una attività che, anche nascendo per gioco, nella sua esecuzione può arrivare ad essere considerata arte. Non è un caso che “Noble Art” fu definita, nel ‘700 la boxe, a partire da quando un certo Jack Broughton propose che i combattimenti, fino ad allora non assoggettati ad alcun vincolo, fossero disciplinati da un codice di regole, via via, sempre più definite. Nemmeno è un caso che il pugilato, forse più di ogni altro sport, possa vantare con il cinema un sodalizio lungo e fruttuoso.
Tutto ciò per rammentare che, in sostanza, l’incontro fra cinema e sport costituisce il contatto fra due realtà che affondano le radici nel concetto di arte. Sono mondi caratterizzati entrambi da regole che, nel caso del cinema, arrivano perfino a sancire una grammatica della regia.
Storicamente, l’incontro fra i due mondi avvenne fin dagli esordi del cinema, perché i primi esperimenti effettuati per riprendere immagini in movimento furono fatti, nella seconda metà dell’ottocento, avendo davanti all’obiettivo delle figure che compivano gesti atletici. Ciò fu solo l’inizio di una lunga tradizione di ricerca che vede il cinema e, più in generale gli audiovisivi, come mezzi impiegati sia nell’insegnamento di base dello sport, sia nello studio e nel perfezionamento, anche estremo, delle performance del singolo atleta.
Il terreno su cui, prevalentemente, si confrontano questi due mondi è costituito dalla dimensione epica. Il cinema ama l’eroe, o meglio, secondo le categorie dell’antropologia culturale, l’ordalia, la prova suprema. E’ questa la prova da cui dipende il futuro dell’eroe, la sua gloria imperitura e la sua “promozione” sociale, oppure la sua disfatta e, infine, la morte.
Lo sport ha sempre offerto al cinema la possibilità di interrogarsi su alcuni misteriosi temi di frontiera. L’impresa dello sportivo-eroe è metafora del combattimento incessante, della infinita inquisitio, della indagine interminabile a cui infine si riduce la nostra stessa esistenza. Lo sport, anche nel cinema, è allegoria della vita, con i sogni traboccanti vitalità dell’adolescenza e con i travagliati dubbi della maturità.
Lo sport diviene una forma particolare di Eros, un amore per il mondo e per l’azione che può anche trascendere l’altro, ma non è mai, semplicemente, narcisista. E’ in quest’ambito che esso realizza maggiormente quella parte della sua essenza corrispondente al gioco. Una dimensione primitiva del gioco, libera e gratuita, che si accosta, addirittura alla realtà del sacro. Lo sport come inno o preghiera alla natura e al sentimento cosmico che essa evoca, quando l’impresa sportiva si svolge in un teatro naturale.
Il cinema, nella sua storia, si è spesso confrontato con lo sport e con le dinamiche che esso attiva nei protagonisti e negli spettatori. I film e le riflessioni che proponiamo alla vostra attenzione, in questo numero, testimoniano, per quanto parzialmente, questo impegno.
Un film, nel bene e nel male, è lo strumento più efficace per descrivere la mente e l’epica dell’eroe sportivo. Persino quando l’obiettivo si rivolge ad una squadra, il patimento epico è, in genere, l’ingrediente principale della vicenda. In questa situazione, però, gli intrecci e la dimensione relazionale possono dispiegarsi con più diretta efficacia.
In tutti i casi, comunque, non si può dimenticare che lo sport moderno si offre all’attenzione dello spettatore e del tifoso con forti chiaroscuri. I principi ed i valori ritenuti, una volta, intrinseci e permanenti rispetto alle mete connaturate dello sport, vacillano pesantemente. Da una parte c’è la spinta destabilizzante all’eccellenza del campione e al risultato ad ogni costo, che spinge alcuni atleti a percorrere, addirittura, una disperata strada chimica, per migliorare le prestazioni. Dall’altra si registra l’esplosione di esigenze di massa di tipo spettacolare ed estetico, che rendono lo sport ipotecato da fattori economici e commerciali.
Non vi è nulla di più esaltante della “celebrazione” olimpica ma, contemporaneamente, non vi è nulla di più mortificante della spregiudicata logica degli affari che vi si consuma.
Paradossalmente è proprio il cinema che riesce a recuperare e a diffondere i primitivi valori storici e psicologici positivi, che appartengono alla dimensione sportiva. Il film deve raccontare una storia e, nel fare ciò, inevitabilmente finisce per offrire “il volto e l’anima” di un personaggio. Sia che il personaggio proponga l’eroe positivo e vittorioso, sia che rappresenti l’anima disperata dello sconfitto, dalla vita ancor più che dalla gara, la logica del film impone che, in ultima analisi, la dimensione epica e valorosa dello sport sia fatta salva. Quindi, almeno al cinema, lo sport buono lo potremo vedere sempre.