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Commento a: “La storia di un impostore alla luce della conoscenza psicoanalitica” di Karl Abraham
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Questo lavoro di Karl Abraham, scritto nel 1923, non tratta, direttamente, né il teatro né la recitazione. Tuttavia ha trovato un posto importante perché, nell’esporre una storia clinica, esamina diversi aspetti della personalità che possono ritrovarsi nelle persone che amano recitare ed aspirano a qualificarsi come attori.
Non ci si riferisce, assolutamente, ad una caratteriologia dell’attore, perché risulterebbe metastorica e più indicazioni fanno pensare che non possa essere realizzata. Emergono, però, alcuni elementi del recitare che, dalla storia di questo impostore, si delineano come possibili attributi anche di chi recita sul palco teatrale.
Karl Abraham, nato a Brema nel 1877, aveva studiato al Burghölzli di Zurigo, con Eugen Bleuler, venendo anche in contatto con Carl Gustav Jung. Egli appartenne alla prima generazione di psicoanalisti freudiani e fu, come soleva chiamarlo Sigmund Freud, il primo psicoanalista tedesco (Grotjahn, 1966). Uomo di vasta cultura classica, appassionato allo studio delle lingue, antiche e moderne. Parlava, correntemente, quattro lingue odierne e si faceva intendere in altre tre. Una volta sorprese i partecipanti al Congresso Psicoanalitico dell’Aia, rivolgendosi a loro in latino. La sua conoscenza del greco era così profonda, da poter scrivere, negli ultimi anni della sua vita, un dramma in questa lingua.
Il suo principale contributo riguarda il proseguimento della teoria dello sviluppo libidico. Nel 1910 fondò la Società Berlinese di Psicoanalisi e, nel 1920, assieme a Max Eitingon ed Ernst Simmel, partecipò alla fondazione dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino. A quest’ultima istituzione venne annesso un Policlinico Psicoanalitico che accoglieva, per consultazioni, pazienti con limitate capacità economiche (Angelini, 2002).
Abraham ebbe contatti diretti col mondo dello spettacolo. Fu consulente, assieme a Hanns Sachs, del grande regista Georg Wilhelm Pabst, per la realizzazione del film I misteri di un’anima. Inizialmente, la consulenza era stata richiesta a Freud ma, avendo egli rifiutato, il compito era passato ai suoi allievi. Purtroppo Abraham non riuscì a vedere il film, perché scomparve nel 1925, un anno prima che la pellicola raggiungesse le sale cinematografiche.
Nel testo proposto, il personaggio descritto da Abraham recitava, continuamente, la parte di un altro, fin dall’infanzia; era come se fosse stato condannato al ruolo di “attore a vita”. Ma attore di cosa? Attore dei suoi istinti e dei suoi bisogni pulsionali. In primo luogo, desiderava accattivarsi la fiducia di tutti e ricevere la simpatia degli altri. In ciò riusciva e dominava il suo pubblico, coinvolgendolo in una sorta di “convenzione giocosa”. Questo fenomeno appartiene anche al teatro, dove l’attore convince il pubblico a “far finta” che quanto raccontato sia vero, come per gioco. Anche l’idea di accostare la dimensione del gioco alla situazione teatrale è, psicologicamente, assai consolidata.
Il paziente di Abraham era un virtuoso nel campo delle storie fantastiche ed emozionanti; con esse affascinava gli interlocutori. Nel far questo si esibiva, con modalità capaci di attrarre benevolenza. L’esibizionismo, in forma non patologica, è un requisito necessario alla recitazione; anche se, va sottolineato che, non tutti quelli che desiderano esibirsi sono attori. Abraham evidenzia la necessità, manifestata dal suo paziente, di avere sempre un pubblico da ingannare. Solo la presenza e la credulità dell’altro garantiva una vita, seppur fittizia, al suo personaggio. Per quel che riguarda questo paziente, nell’ingannare sempre il suo pubblico, esprimeva anche spunti sadici.
Viene da pensare ai pazienti “bugiardi” che intraprendono una analisi e utilizzano la menzogna per controllare, corrompendolo, l’analista, tentando di farlo divenire partner di una relazione perversa e, come tale, promotrice, nel paziente stesso, di un vissuto d’onnipotenza.
A differenza di un vero attore, il paziente di Abraham non accettava effettivamente il giudizio del pubblico. I suoi fallimenti erano dovuti più che a smascheramenti dall’esterno, a impulsi coercitivi inconsci che distruggevano ogni situazione a lui favorevole.
L’attore vero non nasconde la finzione; anzi la vuole “condividere” con il pubblico e aspetta ansiosamente l’applauso per avere conferma di “essere accettato e benvoluto”.
Il paziente di Abraham riusciva ad imporre la sua finzione, ma sapeva che non avrebbe mai ricevuto l’applauso, o meglio che il suo benessere sarebbe durato solo fino a quando avesse retto la commedia. Potremmo, in chiave psicoanalitica, indicare questi due atteggiamenti come modalità diverse di rivolgersi al Super-Io. L’attore si sottomette al giudizio, il paziente di Abraham non riusciva a farlo.
Quest’ultimo concluse la sua vicenda, dopo molti anni, sposando una vedova, madre di diversi figli adolescenti, con cui sembrò trovare una certa pace interiore, sospendendo anche gli atteggiamenti d’impostura.
Viene da pensare al destino di un celebre bugiardo ed istrione il Peer Gynt (1867) di Henrik Ibsen che tanto avrebbe affascinato Wilhelm Reich (1920). Peer, dopo molti tentativi falliti, solo incontrando la “moglie-madre-donna senza colpa” Solveig, riesce a posporre la dissoluzione nel nulla.
Anche se non vi sono riferimenti diretti all’arte del recitare, il lavoro di Abraham è il primo, in ambito psicoanalitico, che offre diversi spunti indiretti sul fenomeno della recitazione.
A. A.
Angelini A. (2002), “Note storiche sulla prima consultazione
psicoanalitica”, Rivista di Psicoanalisi, n. 3.
Angelini A. (2014), Psicoanalisi e Arte teatrale, Alpes Editore, Roma.
Grotjahn M. (1966), “Karl Abraham”, in: AA. VV., Pionieri della
psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1971.
Ibsen H. (1867), Peer Gynt, Einaudi, Torino, 1975.
Reich W. (1920), «Il “Peer Gynt” di Ibsen. Conflitti libidici e fantasie
deliranti», in: Scritti giovanili, vol. 1, SugarCo, Milano, 1975.
L’articolo di Karl Abraham La storia di un impostore alla luce della conoscenza psicoanalitica è stato pubblicato in:
Opere di Karl Abraham, vol. 1, pp. 156-169, Boringhieri, Torino, 1975 e in:
Angelini A., Psicoanalisi e arte teatrale, Alpes Ed., Roma, 2014.