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L’età barbarica – 2008
Eidos cinema e psyche, 11
2007, regia Denys Arcand
Antichissima, coincidente con l’aurora della filosofia, è la polemica contro la “moltitudine dei dormienti”, contro coloro che, sosteneva Eraclito, rinchiusi nel loro mondo,“non comprendono le cose nelle quali si imbattono”, incapaci di cogliere la sostanza al di là dei molteplici aspetti della forma. Costoro perseguono tenacemente la doxa, ovvero quella opinione che è “mal caduco che la vista inganna” e testimoniano il detto: “pur presenti sono assenti”. Jean Marc, impiegato ministeriale del Quebec, che ama frequentemente evadere in un suo mondo di sogni ad occhi aperti, sembrerebbe appartenere a tale schiera di dormienti; ma presto lo spettatore si accorge che il regista mira ad un altro obiettivo. Con L’età barbarica (titolo originale, L’età delle tenebre) Denys Arcand chiude la sua trilogia, iniziata venti anni fa con Il declino dell’impero americano e proseguita con grande successo con Le invasioni barbariche, al quale ammicca il titolo italiano, oltre alla locandina troppo uguale. L’età delle tenebre è il Medio Evo e la pessima traduzione del titolo smarrisce il senso dell’opera. Il Medio Evo è l’età contemporanea, la vita quotidiana, un lavoro frustrante e inutile, una famiglia virtuale, la negazione dei rapporti affettivi, una tecnologizzazione estrema che emargina nella solitudine. Tra caricatura e paradosso, Jean Marc è semplicemente solo, in una società ricca e terribile. Il suo lavoro nell’ufficio reclami di un dipartimento statale è inutile e devastante; la burocrazia impedisce la soluzione di qualunque problema gli si presenti. Il suo capo, la bella Carole, lo censura frequentemente e l’umiliazione è temperata solo dai sentimenti di solidarietà espressi da una collega omosessuale e da un vicino di scrivania definito “uomo di origini equatoriali” da una apposita Commissione Statale che ha abolito la scorretta parola “negro”. Tra ridicoli incontri per la motivazione dei dipendenti e sigarette fumate in clandestinità, sfuggendo alle pattuglie antifumo, con tanto di cani lupo, mentre il surriscaldamento globale spinge la popolazione ad uscire di casa con inquietanti mascherine antismog, le giornate di Jean Marc si consumano nella pochezza. E’ un film senza trama, descrittivo e non narrativo; ma non per questo meno efficace. Il rientro a casa del protagonista è altrettanto amaro. Le due figlie vivono in un mondo fatto di video e ipod, mentre la moglie, assorbita e isolata da una forsennata carriera d’immobiliarista, favorisce la separazione. Jean Marc sogna; sogna non solo per dare sfogo al suo erotismo con una donna bellissima, ma soprattutto per contare qualcosa, per essere ascoltato, per sentirla chiedere “Come sta tua madre?”, mentre gli offre da bere. Non è una fantasia, è un bisogno; in una età in cui non si è ancora invecchiati, ma le aspettative per il futuro diminuiscono. Il regista vuole descrivere una situazione che oltrepassa la semplice evasione dalla realtà. Jean Marc è un alieno dal mondo, anche quando ancora non lo sa. E’ alius, cioè irriducibilmente altro rispetto a coloro che pure fanno lo stesso lavoro; è altro nei confronti di quel che da lui ci si attende; è altro dal lasciarsi assorbire dagli schemi, dai ritmi, dalle consuetudini di un mondo al quale sembra non appartenere. Il suo mondo vero, per la maggior parte del film, è quello immaginario. Sul piano della realtà, questo suo stare nel mondo senza appartenervi lo rende un disadattato, uno straniero. Come straniero transita nel caos sociale, sempre strutturalmente “extra-ordinario”. La morale, se la vogliamo cercare, constata come l’essere in “molti” non solo non implica necessariamente “avere ragione”, ma al contrario potrebbe indicare la sottomissione ad un mondo distorto. Alla moltitudine di coloro che da sempre vivono immersi nelle tenebre della caverna platonica e che di conseguenza considerano vera realtà le ombre proiettate sulla parete, quanti da essa si sforzano di uscire, alla ricerca di un mondo diverso e più autentico, sembrano dissennati; perciò, inevitabilmente, sono biasimati e derisi.
Jean Marc, in un processo evolutivo, decide di abbandonare i suoi sogni di erotismo e gloria, come ha abbandonato la moglie e il lavoro, per identificarsi e oltrepassare simbolicamente quel confine che separa l’adolescenza mentale da una età psicologicamente più adulta. Ma è uno sviluppo che, fortunatamente, non lo normalizza, non lo rende conforme alle regole sociali. Per il regista egli rimane un individuo sveglio tra i dormienti, soprattutto quando, in un finale aperto, si sforza, lontano dal mondo, di comprendere e costruire, nella mente ancor prima che nel reale, la propria identità e il proprio futuro.
Pubblicato sulla rivista Eidos,n. 11/2008