Guida psicologica all’esame di maturità
Il tempo di esami, si sa, porta ansie e paure. Fu lo stesso fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, a osservare, nel lontano 1899, come l’esame di maturità perseguiti, in sogno, molte persone, per la vita intera. Tutti gli esami, inevitabilmente, portano ansie che possono essere classificate in due grandi categorie.
Esiste, in primo luogo, una ansia razionale, legata alla responsabilità del singolo studente, nei confronti della preparazione raggiunta. E’ l’inevitabile preoccupazione di chi conosce le sue capacità e le sue lacune.
Esiste, poi, una ansia legata alla situazione stessa dell’esame, che prescinde dalla preparazione raggiunta dall’allievo. Essa sgorga dal profondo della mente, disorientando i pensieri e impedendo un efficace autocontrollo. Ciò accade perché l’esame può trasformarsi, a livello psichico profondo, in una prova che ha una importanza emotiva e simbolica assai più vasta del suo valore reale. Questo tipo di ansia varia, col variare della reale maturità psicologica dell’individuo. Anche se la scuola può apparire non adeguata, nel formare il carattere e l’equilibrio dello studente, ogni esame, prima ancora della preparazione scolastica, mette alla prova questi aspetti della persona.
D’altra parte, gli esami sono situazioni normali della vita; quindi questa ansia, salvo casi abnormi, non può essere trattata come l’espressione di un conflitto nevrotico, nonostante le sue radici psichiche profonde. La miglior cosa da fare, in questo caso, è attuare quella tecnica psicologica definita “desensibilizzazione”. In pratica, ogni giorno, più volte al giorno, conviene immaginare, per qualche minuto, di trovarsi davanti alla commissione d’esami, anticipando, mentalmente, la temuta ansia collegata all’avvenimento. Con questa esposizione parziale e frammentata all’episodio temuto, realizzata tramite una simulazione, la propria sensibilità all’emozione ansiosa, auspicabilmente, diminuisce. L’idea della desensibilizzazione psichica è antichissima. Il filosofo stoico Epitteto propugnava il controllo delle proprie emozioni, con lo stesso metodo, già intorno al primo secolo dopo Cristo.
Simulando l’esame almeno una volta al giorno e immaginando quali domande potrebbero essere poste, si orienta meglio anche l’attenzione, rispetto agli argomenti da studiare. Si evita, cioè, che l’attenzione risulti troppo passiva nei confronti del testo, migliorando, anche, l’organizzazione delle conoscenze nella propria mente.
Per quel che riguarda, invece, il primo tipo di ansia, quella legata all’effettiva preparazione raggiunta, una buona organizzazione del tempo disponibile e del metodo di studio possono essere di grande aiuto.
Il sistema più comune per sprecare tempo è quello di leggere e rileggere il libro di testo, cercando di trasformare il proprio cervello in un gigantesco contenitore di parole, gonfio come un pallone e pronto a esplodere, alla prima domanda. E’ opportuno, invece, procedere per livelli di approfondimento successivi, affrontando, a ogni livello, tutta la materia. In concreto: si prende il primo libro da studiare e, programma alla mano, si individuano gli argomenti richiesti. Senza pretendere di leggere tutto, si raccolgono, per ogni argomento, le notizie utili per realizzare una scheda di base, sintetica ma sufficiente per superare la prova, col minimo dei voti. Avendo selezionato e chiarito gli argomenti più importanti, se il tempo rimasto lo permette, si ripassano i concetti acquisiti e, successivamente, si amplia lo studio approfondendo il livello di conoscenza della materia.
L’importante è mantenere una attenzione selettiva, individuando le informazioni che risultano più significative, senza cercare di “ingoiare” l’intero libro, come una immensa pillola. Anche la simulazione mentale dell’esame può aiutare a combattere una eccessiva passività nei confronti del testo, orientando l’attenzione sulle domande che potrebbero essere poste e sugli argomenti da studiare.
Rispetto al metodo studio, la diffusa pratica che vede gli studenti sotto esame curvi sui libri, per lunghe nottate senza tregua, oltre a causare un super affaticamento determina, dopo qualche giorno, una netta avversione per lo studio. E’ meglio, invece, dosare le forze, intercalando delle pause, prima che arrivi la fatica. Concentrarsi non significa stare al tavolino, con i pugni sulla testa, ma vuol dire fare silenzio intorno e lasciare che il libro occupi la zona centrale della nostra attenzione.
Per frammentare l’affaticamento si può, per esempio, dopo aver studiato per una o due ore, dedicare una pausa di quindici minuti ad una attività piacevole: dalla telefonata, al panino, al caffè e via dicendo. Così, l’effetto gratificante della pausa si riverbera sulla precedente attività “spiacevole” dello studio. Al contrario, se si telefona o si mangia un panino durante lo studio, la concentrazione, ovviamente, svanisce.