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Il cinema di Andy Warhol
Il nome di Andy Warhol (1928-1987) pittore, grafico e regista statunitense resta, principalmente, legato alle riproduzioni seriali delle sue immagini pop. Tuttavia, a partire dal 1963, Warhol manifesta un forte interesse per il cinema. In quell’anno acquista una cinepresa Bolex 16 mm e realizza una prima serie di film minimali, legati al mero soddisfacimento fisico dei soggetti ripresi. Sleep, Kiss, Haircut, Eat, Blow job, tutti girati fra il 1963 e il 1964, riprendono, rispettivamente, un uomo che dorme, una serie di baci di circa tre minuti ciascuno, un taglio di capelli, un uomo che mangia un fungo e, in un lunghissimo primo piano di trenta minuti, un giovane al quale fuori campo viene praticata una fellatio. Sono tutte riprese fatte con la camera fissa. A Warhol, infatti, interessa la composizione dell’immagine che si viene a creare, partendo da un unico punto di vista.
Questi primi film sono come quadri che, invece di essere appesi, sono proiettati su una parete bianca. Tutti le pellicole di Warhol sono in 16 mm, in bianco e nero e hanno un sonoro ottico mediocre. La tecnica del piano-sequenza, usata abitualmente per lunghi periodi, produce una sensazione d’immobilità e di abolizione del tempo, costringendo lo spettatore a una faticosa attesa, di fronte alla camera fissa, su scene quotidiane svuotate di significato. I film sono girati a 24 fotogrammi al secondo, ma vengono proiettati a 16, aumentando la dilatazione temporale ed esasperando la percezione dell’immagine. Inoltre, il regista si limita a disporre e registrare l’azione e quindi manca la presenza dell’autore, come soggetto.
Qui il cinema si ricollega alla pittura, richiamando la celebre serigrafia della zuppa Campbell; poiché in un’era tecnologica, l’imitazione acquista l’ulteriore statuto della riproduzione e il creatore scompare. Si pensi alla lunga ripresa dell’Empire State Building in Empire (1964), film-ritratto di natura morta che consiste in un’inquadratura della durata di otto ore sul famoso grattacielo newyorkese.
Luogo fondamentale, sia per la sperimentazione, sia per l’ispirazione, nel mondo del cinema di Warhol, è la Silver Factory, l’ampio locale ubicato al quarto piano di un ex fabbrica di cappelli, sulla 47ª strada, che è stato per Warhol, lo studio-laboratorio e il teatro di molti progetti artistici, tra il 1963 e il 1968. Circondato da persone cui chiede suggerimenti ed idee, Warhol lavora alla Factory con ritmi da “catena di montaggio”. La Factory è una open house, un luogo aperto in cui tutti sono invitati a partecipare. La possibilità di registrare ogni tipo di fatto fortuito fa del film un prodotto del caso, una riproduzione genuina degli avvenimenti. Couch (1964) porta all’estremo quest’estetica minimalista, in un ready made cinematografico che fa ampio uso di pellicola nel tentativo di catturare gli incontri casuali che avvengono su un divano, inquadrato anche in assenza del regista, ospitando conversazioni e rapporti sessuali che si consumano nella generale indifferenza.
Il primo film sonoro di Warhol, Harlot, è del 1964, seguito da Vinyl (1965) e da Kitchen (1966), dove la trascuratezza e l’incompletezza stilistica diventano una aperta strategia compositiva. Nelle inquadrature, a volte, si aggira anche qualche intruso, come a ribadire che quanto avviene fuori scena è significativo come la scena stessa, dando all’opera un carattere collettivo di happening.
Warhol, col suo cinema, vuole anche realizzare la parodia dell’industria cinematografica di Hollywood. Egli propone la caricatura dei divi, inscenando un divismo declassato e kitsch. Soprattutto vuole demistificare lo star system del cinema, i generi e i personaggi cinematografici, come il western (Horse, 1965; Lonesome cowboys, 1968) e lo stesso cinema porno (Couch,1964; Blu movie, 1969). Warhol imitò, soprattutto, le tipologie incarnate da James Dean, Joan Crawford e Hedy Lamar (Hedy, 1965) che fece interpretare da travestiti o da attori velleitari come Jackie Curtis.
Risalgono al 1966 gli esperimenti “mixed media” come The Velvet Underground, registrazione di un concerto dei Velvet Underground, che Warhol realizza con diapositive e luci stroboscopiche, in una complessa multi visione, in cui viene utilizzata anche la tecnica di due proiezioni contigue e simultanee, già sperimentata in The Chelsea girls (1966) e usata poi in Four stars (1967). In questi film, il regista affianca o sovrappone sullo schermo le immagini di due pellicole distinte, utilizzando due proiettori diversi.
Dopo My hustler (1967), Warhol gira, nello stesso anno, Imitation of Christ in cui confronta ereticamente la vita solitaria di un drogato con il raccoglimento spirituale del credente. Dal 1968, quando torna alla pittura, diviene produttore di film di culto, iniziando la collaborazione con Paul Morrissey. Quest’ultimo firma Flesh (1968) e, insieme allo stesso Warhol, Women in revolt (1972). Trash (1970) di Morrissey, viene letteralmente girato “sul corpo” dei suoi personaggi, in una storia di accoppiamenti illeciti, frustrazioni e impotenze.
Warhol appare inoltre in varie opere underground, come The Illiac passion (1967) di Gregory J. Markopoulos, e i due film-ritratto a lui dedicati: Andy makes a movie (1968) di Robert Emmet Smith e il film realizzato da Jonas Mekas e incentrato sulla consegna all’artista dell’Indipendent Film Award (Award presentation to Andy Warhol, 1964).
Un elemento importante, nella produzione cinematografica di Warhol, è costituito dai cinquecento rulli di Screen Test; film ritratti di personaggi in visita alla Factory, che vengono ripresi con camera fissa, per tre minuti, su un fondo nero. Egli chiede ad ogni partecipante del provino (screen-test) di fissare la camera, di non muoversi durante la ripresa e di non sbattere le ciglia, restando con lo sguardo fisso. L’idea è che, lasciando funzionare la camera fino a quando la pellicola finisce ed evitando il montaggio, le persone si manifestino per come sono veramente. Questa procedura consentirebbe, non solo di entrare nell’intimità del personaggio ripreso, ma anche di costringere lo spettatore alla riflessione.
Warhol ha ricercato e sperimentato diverse nuove tecniche cinematografiche, tentando, in particolare, di dilatare lo spazio filmico fino alla percezione di ciò che avviene fuori campo. In Blow Job (1964), lo spazio in campo è solo l’effetto di ciò che succede al di fuori dell’inquadratura. Si può trovare la tecnica del fuoricampo anche in Harlot, sempre del 1964, dove il sonoro proviene dall’esterno opprimendo i volti dei personaggi e stimolando il divenire dell’azione. In Poor little rich girl (1965) entra nel film un ragazzo che non si vede quasi mai, perché discute con la protagonista da fuori campo. L’uso dello spazio esterno all’inquadratura è presente anche in Kitchen (1966), dove gli elementi in campo e fuoricampo interagiscono continuamente con quello che la macchina da presa mostra.
Negli ultimi film, come Lonesome Cowboys (1968), l’espediente tecnico più usato è lo “Strobe cut” (il taglio improvviso). Esso consiste nel montaggio di due pellicole, o di due sequenze, separate dall’inserzione di un’immagine bianca, che costituisce una rottura, una specie di noia visiva, simile a quella che in pittura Warhol aveva mutuato da Jasper Johns. L’interruzione brusca riporta lo spettatore alla “realtà”, abbandonando momentaneamente la dimensione cinematografica e rendendo pressoché impossibile l’identificazione dello spettatore con i personaggi. Questo tipo di montaggio era, per Warhol, particolarmente semplice perché si poteva effettuare nella stessa macchina da presa senza passare per la sala di montaggio. Egli sosteneva che lo Strobe cut “rendesse il film più misterioso”.
Simile allo Strobe cut, è la proiezione del film dall’iniziale sfondo bianco fino all’uscita bianca, il cosiddetto “White out”.
Un’altra tecnica capace di produrre un effetto scioccante è lo “Zooming as zooming”, cioè uno zoom senza particolare funzione, se non quella di destabilizzare la concentrazione e quindi di, portare, come negli altri espedienti tecnici, l’attenzione fuori dal film. Valga, fra tanti, come esempio, The Nude Restaurant (1967), dove i commensali del ristorante sono nudi, ma la cinepresa, piuttosto che riprenderli, tende a soffermarsi sul tavolo.
Prescindendo dagli espedienti tecnici, emerge nel cinema, come nelle altre espressioni artistiche di Warhol, dalla pittura, alla scultura e alla grafica, il desiderio di perseguire una dimensione iperrealista. La sua cinematografia, influenzata dalle tecniche documentaristiche, aspira, in definitiva, a superare la barriera tra l’artificio e il mondo concreto, tra il cinema e la realtà.