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La caduta – 2005
Eidos cinema e psyche, 3
2005, regia Oliver Hirsdchbiegel
Hitler consuma il suo ultimo pasto. Poi, con la stessa freddezza con cui ha mosso il destino di milioni di persone, porta a compimento il suo suicidio e quello di Eva Braun. Prima di far ciò, esprime affettuosità verso la segretaria e gratitudine per la cuoca. Poi, Magda Goebbels uccide, uno dopo l’altro, i suoi figli addormentati.. Con gesti efficienti e identici, a ciascuno apre la bocca, infila tra i denti una capsula di veleno e poi, rapida, ne serra le mandibole. Per sei volte si sente un rantolo lieve e per sei volte la donna, con assurda tenerezza, porta le lenzuola fin sul volto del figlio morto, scoprendone i piedi nudi. Sono questi tra i momenti più orridi del film La Caduta, del tedesco Oliver Hirsdchbiegel, che descrive gli ultimi giorni di Hitler rinchiuso, con i suoi fidi, nel bunker di Berlino, mentre le truppe sovietiche si avvicinano.
E’ una vicenda sul significato del male, sulla mancanza del senso di colpa e sulla rimozione della stessa. Una vicenda che, in chiave psicoanalitica, ripropone il controverso tema della freudiana “Pulsione di morte”, ovvero una primitiva tendenza dell’organismo verso l’inorganicità e l’autodistruzione, che verrebbe successivamente diretta verso l’esterno, manifestandosi sotto forma di aggressività e distruttività. Freud propose questo concetto nel 1920, in Al di là del principio del piacere, poco dopo la prima guerra mondiale, cercando di dare un senso all’immane carneficina e alle catastrofi cui aveva assistito. Qualche anno prima di lui, Sabine Spielrein , psicoanalista russa erede di una tradizione culturale legata al nichilismo, si era interrogata sullo stesso argomento. Come spiegare il male, la violenza e la guerra, nella storia? La risposta, in questa riflessione freudiana della maturità, non lasciava speranze: il male e l’aggressività appartengono alla primitiva natura umana; possiedono una base biologica: quindi sono in tutti noi.
Il film di Hirsdchbiegel è tratto dal libro dello storico tedesco Joachim Fest “Dentro il bunker di Hitler” e dal diario della segretaria del Fhurer, Traudl Junge “Fino all’ultima ora”. Proprio dal punto di vista di questa giovanissima segretaria, il regista e lo sceneggiatore Bern Eichinger, che è anche il produttore, hanno scelto di raccontare gli ultimi giorni nel bunker. Hitler è interpretato da un magistrale Bruno Ganz, che ha realizzato una vera e propria metamorfosi fisica, raggiungendo una impressionante somiglianza con la figura del dittatore. Quest’ultimo viene descritto nella sua contraddittoria dimensione personale. Da una parte è un uomo senza compassione. Non ne prova per il popolo tedesco, “che ha scelto la sua fine”; non ne prova per i suoi soldati, che reputa “vigliacchi”, né per i suoi generali, “tutti traditori”. Dall’altra, ascolta compunto i canti dei figli di Goebbels, che lo chiamano “zio” e magnifica le bellezze della Baviera, terra d’origine della segretaria.
Non tutti hanno accettato questa rappresentazione cinematografica dell’umanità del dittatore. Wim Wenders e soprattutto Liliana Cavani hanno accusato il regista di aver sottovalutato la dimensione tragica del personaggio Hitler e la sua responsabilità storica. Nel film, il tema della colpa non verrebbe affrontato, mostrando il Fhurer come un personaggio patetico, ma mai tragico.
Sul piano drammaturgico è una critica con dei fondamenti. Tuttavia, in una prospettiva psicoanalitica, l’opera raggiunge diversi bersagli. La responsabilità personale, che pure esiste e di cui dobbiamo farci carico, non può coincidere, nemmeno per un tiranno, con la responsabilità storica. La vera tragedia è che l’umanità appartiene anche a chi pratica l’orrore. Tutti noi vorremmo rappresentare i mostri in forma disumana, addirittura fisicamente. Proprio nel cinema, per esempio nella fantascienza, più un soggetto è malefico e distruttivo, più viene rappresentato con forme aliene, magari come un insetto o un mezzo rettile, per renderlo estraneo. Lo stesso processo, con sfumature diverse, si ripropone nella maggioranza delle situazioni. Come quando l’assassino è “pazzo”; non alieno, ma alienato. Vorremmo che chi pratica il male fosse evidentemente diverso da noi, nella forma e nella sostanza. In realtà, quando cerchiamo di ottenere questo tranquillizzante risultato, nel cinema come nella vita, stiamo proiettando le nostre cariche distruttive sull’altro; sia esso un mostro spaziale o un dittatore sanguinario.
La freudiana “Pulsione di morte”, vera o falsa che sia la sua origine biologica, ripropone in realtà ciò che gli antichi Latini avevano sintetizzato nel detto: “Sono uomo. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo” (Homo sum. Nihil hominibus a me esse alienum). Non a caso questo concetto di Freud è stato tra i più dibattuti e criticati dai suoi stessi allievi. Otto Fenichel, uno dei massimi teorici della psicoanalisi del novecento considerò la pulsione di morte una idea incongrua e contraddittoria all’interno della teoria delle pulsioni. Wilhelm Reich, il cantore della rivoluzione sessuale, sostenitore della qualità positiva degli istinti, si rifiutò semplicemente di ammettere che qualcosa di fondamentalmente malvagio potesse albergare nella natura umana. Riteneva, invece, che l’aggressività sia conseguenza del costante stato di frustrazione esistenziale e fisica in cui l’individuo vive. Nel far ciò, costoro si riallacciavano alle posizioni di una antica controversia filosofica. Freud si era ispirato alle idee del filosofo Thomas Hobbes, che sosteneva l’intrinseca distruttività presente nelle relazioni umane (Homo homini lupus). Fenichel e Reich si collegavano invece, idealmente, al pensiero di Jean-Jacques Rousseau, per il quale l’individuo nasce buono, ma può essere corrotto e incattivito dagli influssi della vita sociale.
Queste gigantesche controversie riecheggiano all’interno de La Caduta, travalicando ampiamente i limiti artistici e cinematografici dell’opera. Il film è fattivamente esatto, ma non eccelso. Il regista Oliver Hirschbiegel proviene dalla televisione seriale (Il commissario Rex) e qualcosa di televisivo trapela nella confezione dell’opera.
La scelta claustrofobica del bunker , dove la vita del tiranno si spegne, quindici metri sotto il Reichstag, è la metafora del destino di un tema puntigliosamente rimosso, per molti decenni, nella Germania del dopoguerra. Perché è occorso tanto tempo per arrivare a parlare di questo argomento? Forse perché il tempo necessario è proporzionale alla gravità del lutto subito e poiché la prima vittima di Hitler fu la Giustizia, può sembrare a molti che il tempo non basti mai.
Pubblicato sulla rivista Eidos, n.3/2005