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La dipendenza dal setting psicoanalitico e il cinema – 2014
Eidos cinema e psiche, 30
di Alberto Angelini
I riferimenti che il cinema contemporaneo offre riguardo all’impegno e alla durata del trattamento psicoanalitico sono numerosi e, spesso, ironici. Valga per tutte la celebre battuta di Woody Allen nel film Io e Annie (1977): “Sei in analisi? Sì da quindici anni. Quindici anni? Sì, gli concedo un altro anno, poi vado a Lourdes”. Fatta salva l’ironia, il tema della conclusione dell’analisi e della sua difficoltà è stato oggetto di storiche indagini a partire dagli inizi del secolo scorso e trova solide fondamenta nella letteratura psicoanalitica.
I primi che vollero affrontare le difficoltà legate al termine dell’analisi furono Sandor Ferenczi e Otto Rank, nel 1924. Fino ad allora, il processo di conclusione dell’analisi non era stato, sistematicamente, considerato, ma si registravano frequenti problemi nella fase di distacco. Ferenczi e Rank sostennero che l’analista avrebbe dovuto indicare una data di conclusione, per evitare che la ripetizione dell’arcaico attaccamento infantile all’oggetto materno si proponesse, nella situazione transferale, sulla persona del terapeuta. In una prospettiva più ampia, il problema si era posto già con la pubblicazione dell’opera di Freud Al di là del principio del piacere, nel 1920, dove si ipotizzava la presenza di una pulsione di morte, distruttiva interna, su base biologica. Fino ad allora, il contratto tacito e, fin troppo ottimista, fra paziente e analista era che, tramite l’esame dei sogni, delle libere associazioni e la risoluzione del transfert, l’analizzando avrebbe rivelato all’analista ciò che aveva rimosso e questo, ovvero rendere consapevole l’inconscio, lo avrebbe guarito. Ma se esiste questa distruttiva e interna pulsione di morte, immaginare di poter concludere una analisi, offrendo al paziente uno strumento per mantenere, a vita, un buon equilibrio è impossibile. Infatti la pulsione di morte, biologicamente fondata, continuerà a produrre devastazione, anche dopo la fine dell’analisi. Freud suggerì, agli analisti stessi, di intraprendere, periodicamente, una tranche di analisi, per contrastare questa aggressione interna.
D’altra parte, se accettiamo l’idea freudiana che un trattamento psicoanalitico non possa mai essere completo e, utopicamente, perfetto, il campo di applicazione della psicoanalisi si amplia molto, raggiungendo pazienti ritenuti inaccessibili, ai tempi di Freud: i cosiddetti “pazienti gravi”. Contemporaneamente, però, le analisi tendono ad allungarsi. Storicamente, la pubblicazione di Analisi terminabile e interminabile (1937), dove si discutono proprio i limiti del lavoro analitico, ha rappresentato la fine dell’illusione, tanto amata, di una “psicoanalisi completa”. Il progressivo prolungarsi delle analisi, che si accentuò, soprattutto negli anni cinquanta, negli USA, nell’ambito della Psicologia dell’Io, nella cosiddetta “Epoca di Hartmann”, può essere interpretato come il tentativo reiterato di dimostrare che una analisi completa si sarebbe potuta concepire.
Come affrontare questo problema? Va considerato che alcuni pazienti sono, intrinsecamente, organizzati in maniera dipendente e hanno bisogno di un appoggio, per cui saranno sempre legati a un terapeuta o a dei gruppi.
Un esempio cinematografico italiano, di questo orientamento di personalità, lo troviamo, in chiave comica, nel film di Carlo Verdone Ma che colpa abbiamo noi (2002). I partecipanti ad una terapia di gruppo, dopo aver assistito, nel corso di una seduta, alla morte della loro analista ottantenne, trovandosi in difficoltà nella ricerca di un nuovo terapeuta, decidono di continuare l’analisi da soli, per mantenere integro il gruppo. E’ un esempio del comportamento di quelle persone che, terminata o interrotta una terapia, devono ricostruire, rapidamente, la situazione terapeutica. In questi casi, le difficoltà nella conclusione dell’analisi si fondano su effettive problematiche soggettive.
D’altro lato, si devono tener presenti le persone che, pur con diverse sfumature di gravità e conflitti, sono in grado, nell’analisi, di passare dalla dipendenza dall’analista ad una sufficiente autonomia dell’io ed alla potenziale capacità di separarsi. Ma anche qui, come mai in alcuni casi le analisi si trascinano, comunque, faticosamente e le conclusioni sono difficili? In queste particolari situazioni, se ci atteniamo a quasi un secolo di letteratura psicoanalitica sull’argomento, le responsabilità fondamentali sono sempre dell’analista.
La conclusione della terapia è stata paragonata, dagli analisti, a un nuovo inizio, allo svezzamento, al lutto, al distacco, alla maturazione e così via. E’ un momento difficile sia per il paziente, sia per l’analista. Il paziente deve rinunciare, prima di tutto, al bisogno che l’analista sia, per lui, come un contenitore. Anche l’analista deve accettare il dispiacere che può provocare la fine di un rapporto terapeutico importante. Deve accettare il fatto che non avrà più notizie di una persona con cui aveva stabilito una confidenza profonda e riconciliarsi con i possibili errori che può aver commesso.
Riguardo al paziente, è fondamentale la modalità inconscia in cui egli ha sviluppato il suo transfert, rispetto al terapeuta. Se l’analista, in senso psicoanalitico, è una figura di transfert, ovvero rappresenta, a livello profondo e inconscio, qualcosa di simbolico, relativo alle immagini dei genitori e alla proiezione di aspetti conflittuali di sé, il termine dell’analisi e la separazione sono, relativamente, più accessibili. Quando, invece, il terapeuta non è capace di ottenere questo tipo di relazione, si trasforma, o peggio si propone, come un oggetto affettivo concreto. Quindi diviene perno di un legame emozionale in cui, anche senza che egli se ne renda conto, la sua persona svolge, tendenzialmente, la funzione storica di una figura genitoriale o di un personaggio amicale. In sostanza, venendo meno al suo compito di proporsi come oggetto mentale simbolico e scivolando nella dimensione di oggetto affettivo reale, nel mondo concreto, l’analista pone un grande ostacolo alla futura conclusione dell’analisi. Mentre le relazioni affettive di transfert hanno un punto d’arrivo, le relazioni affettive, cosiddette, primarie tendono a non finire mai.
Parte essenziale, nel processo di formazione clinica di uno psicoanalista, è proprio l’attenzione da porre, teoricamente e affettivamente, sul meccanismo del transfert. Il transfert, nella dimensione emotiva, è una sorta di macchina schiacciasassi che elimina ogni ostacolo alla realizzazione di un forte legame, nell’ambito dei sentimenti, fra il paziente e l’analista. La gestione di questi sentimenti, che possono assumere toni emozionali sia positivi sia conflittuali, è una pratica complessa e deve essere, completamente, acquisita, in senso tecnico ed emotivo, da chi aspira a diventare psicoanalista. Le grandi scuole di formazione degli psicoanalisti, che fanno capo all’International Psychoanalytical Association, fondata da Freud nel 1908 o, comunque, all’originario pensiero freudiano e al suo sviluppo, nell’ambito del movimento psicoanalitico internazionale, considerano essenziale la capacità di gestire il transfert, prima di poter attribuire ad un aspirante il titolo di psicoanalista. Questo è anche uno dei motivi per cui, chi aspira a divenire psicoanalista deve sottoporsi, egli stesso, ad una analisi didattica, per sperimentare la dimensione emotiva della situazione.
Purtroppo, in Italia, una controversa legge del passato, o meglio il modo in cui è stata applicata, ha consentito l’accesso all’esercizio della psicoterapia non solo a professionisti altamente qualificati, ma anche ad un quantità enorme di soggetti impreparati, clinicamente e teoricamente (1).
Del resto, per il profano, è molto difficile verificare la credibilità di uno psicoterapeuta o distinguere uno psicoanalista, seriamente formato, da uno autonominatosi tale, magari perché attratto dal fascino della parola. In senso più generale, questa decadenza va collocata nella complessiva squalificazione della psicologia, intesa come disciplina scientifica autonoma. Ha prevalso, fantasticamente, una idea della psicologia come dottrina terapeutica, sostanzialmente suddita delle neuroscienze ma, soprattutto, della medicina. La natura, evidentemente, storica delle funzioni psichiche superiori, come per esempio il linguaggio e la scrittura, argomentata nel novecento, principalmente, nell’opera di Lev S. Vygotskij è stata rimossa e dimenticata. Magari, proprio la psicoanalisi potrebbe spiegare perché. Gli storici della scienza del futuro riusciranno, forse, a chiarire i motivi per cui attualmente, in ambito istituzionale, lo status metodologico della psicologia e, conseguentemente, della psicoterapia, abbia imboccato questo vicolo senza uscita. E’ importante che la psicoanalisi, come movimento storico e teorico internazionale, non si affianchi alla psicologia istituzionale, nel procedere in questo equivoco epistemologico.
Queste problematiche considerazioni valgono per ogni aspetto terapeutico e non solo per la dipendenza che, comunque, è una situazione di fronte a cui, prima o poi, si trova chiunque eserciti la psicoterapia, prescindendo dal tipo di formazione.
Nel recente ambito cinematografico, non solo italiano, la dipendenza dalla psicoanalisi e il modo in cui viene trattata finiscono per riflettere questo peggioramento nell’ambito formativo della psicologia e della psicoterapia. Una pregevole eccezione, ma solo in ambito televisivo, è stata la serie In Treatment (2013), dove la dimensione terapeutica è stata raggiunta in modo corretto e credibile, se si eccettuano i silenzi della situazione analitica, difficili da sceneggiare. Anche Verdone in Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992), che pure è una commedia leggera, ha dato una immagine di analista abbastanza credibile, sebbene un po’ antipatica.
In generale però, anche in ambito internazionale, nel cinema come in ogni espressione dell’immaginario mediatico, si è verificata, negli ultimi anni, una svalutazione dell’immagine dello psicologo e dello psicoanalista. Dalle grandi figure nobili del passato, come la dottoressa Constance Peterson, interpretata da Ingrid Bergmann in Io ti salverò (1945) di Hitchcock, si è passati, già molti anni fa, a personaggi caricaturali interpretati, nel migliore dei casi, da grandi attori come Peter Sellers in Ciao Pussycat (1965).
Lo psicologo contemporaneo, nella dimensione mediatica popolare, è un incrocio fra un vecchio zio un po’ saggio e la parodia di un amico del cuore, capace di dare buoni consigli. E’ una immagine eccentrica, ma può accadere che la realtà superi la fantasia. Come fa, questo psicologo e terapeuta all’acqua di rose, ipotecato sul piano formativo, a gestire la bestia nera della dipendenza di cui, frequentemente, è la prima vittima? Tutto ciò postulando, per desiderio di armonia, la totale correttezza nella gestione finanziaria del rapporto terapeutico.
Fin dalla seconda metà del secolo scorso, nella letteratura psicoanalitica, la generalità degli autori ha concordato nello spostare sull’analista la responsabilità della positiva conclusione del trattamento. L’analista deve lavorare sugli aspetti psicologici della conclusione, fin dall’inizio delle sedute, esaminando le reazioni del paziente, ad ogni interruzione. Ogni vacanza, ma anche i week end, possono essere occasioni per analizzare i sentimenti legati al distacco e le modalità di conclusione, quando l’evento si approssima, devono essere adattate ai singoli casi. Ogni fine di analisi propone reazioni irripetibili, sia da parte del paziente, sia da parte dell’analista. Quest’ultimo deve combattere su più fronti. Da un lato, deve evitare di idealizzare la conclusione del trattamento, aspettandosi quel risultato perfetto che lo stesso Freud, in Analisi terminabile e interminabile (1937), escludeva. D’altro canto, soprattutto se l’analisi è riuscita, egli avverte un autentico senso di perdita rispetto ad una significativa relazione umana. Per questo, giova ripeterlo, il controtransfert dell’analista deve essere continuamente monitorato, onde evitare la tendenza a trasformare la relazione analitica in un rapporto personale. Come accennato, le difficoltà nella conclusione si pongono maggiormente se, fin dall’inizio, il terapeuta ha creato un rapporto personale, senza essere in grado di spostarlo, adeguatamente, nella dimensione del transfert e, a volte, per i motivi sopradescritti, senza nemmeno avere la cognizione di ciò. Ma quando tutta questa delicata alchimia viene fatta funzionare a dovere, il momento della separazione coincide con una vera e propria rinascita, come è ben illustrato da alcuni bei film del passato. Valga l’esempio di Diario di una schizofrenica (1968), di Nelo Risi, dove la protagonista Anna, dopo il dolore per il distacco dall’analista, vivrà la gioia dell’inizio di una nuova vita.
Vale, per la dipendenza dalla psicoanalisi, come per ogni tipo di dipendenza, ciò che Freud scrisse in Lutto e Melanconia (1915). Le separazioni sono possibili quando si caratterizzano per un “lutto normale”, che include, semplificando, un periodo di tristezza e di normale depressione, ma è contraddistinto dall’assenza di senso di colpa per la perdita dell’oggetto: in questo caso dell’analista. Diversamente, può presentarsi un “lutto patologico”, caratterizzato da forte depressione e forte senso di colpa. Questa colpa, propose Freud, è collegata all’ostilità inconscia e agli ambivalenti sentimenti conflittuali verso l’oggetto che si andrebbe a perdere. E’ un attacco inconscio all’oggetto-analista; ma, nel momento in cui l’analista viene perduto per la separazione, come parte del tentativo di interiorizzazione e di identificazione con quell’oggetto perduto, l’attacco viene diretto all’interno. Il lutto normale fallisce perché l’ostilità inconscia, precedentemente diretta contro l’analista, è ora diretta contro se stessi. La colpa riflette un attacco a parti di se stessi, identificate con l’oggetto perduto. Questa situazione può essere prevenuta solo, a monte, da un terapeuta che ne abbia percezione e affronti, sistematicamente, l’argomento, interpretandolo. E’ un caso paradossale, perfettamente psicoanalitico, di come non solo l’amore, ma anche l’odio, inconsciamente, possa rendere una persona dipendente e realizzare un legame che non vuole sciogliersi.
(1) Nei fatti, si è verificata la legalizzazione e il riconoscimento, da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di un numero elevatissimo di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia. Poiché ne sorgono continuamente di nuove, mentre altre chiudono, è anche difficile sapere, esattamente, quante siano. Comunque, allo stato attuale il numero si aggira intorno alle trecentosessanta unità! Fatte salve le dovute eccezioni, come si può credere che questo esercito all’arrembaggio, del tutto eterogeneo, possa aver mantenuto, complessivamente, alti e qualificati gli standard di formazione degli psicoterapeuti? Il problema non si pone, solo, per la dipendenza, ma per tutti i delicati aspetti di un processo psicoterapeutico, non solo ad indirizzo psicoanalitico.