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La psicoanalisi romantica e l’opera di Otto Fenichel – 2011
Presentazione / Centro Psicoamalitico di Roma
Presentazione del libro Un enciclopedista romantico, di Alberto Angelini
Ed. Liguori, Napoli, 2009
Mercoledì 23 febbraio 2011 – ore 21.15 – Via Panama, 48 – Roma
Intervengono Alberto Luchetti e David Meghnagi
*Questo lavoro costituisce un ampliamento ed un approfondimento di alcuni articoli precedentemente pubblicati
Premessa
Nella storia del pensiero psicoanalitico, l’opera di Otto Fenichel si evidenzia per i lavori di carattere clinico e teorico pubblicati durante la sua permanenza negli Stati Uniti, dal 1938 fino alla morte. Il Trattato di Psicoanalisi (Fenichel, 1945) riuscì universalmente a conquistare il rango di un modello della più classica informazione psicoanalitica. Secondo R. Fine (1979, 82), uno dei più accreditati storici della psicoanalisi, esso “compendia le più importanti conoscenze in campo psicoanalitico raggiunte fino a quel momento”. Analoga, favorevole sorte hanno avuto altre opere attinenti al medesimo genere come i Problemi di tecnica psicoanalitica (1941).
Assolutamente esigua, invece, risulta la rilevanza acquisita dai lavori prodotti in Europa, nel periodo che precedette la sua emigrazione negli Stati Uniti. Anche la letteratura storiografica risulta, oggettivamente, scarsa rispetto a questa parte della vita di Fenichel, che si svolse mentre l’Europa era in crisi e Hitler saliva al potere. Per spiegare questa carenza, va ricordato che buona parte del periodo europeo di Fenichel appare, direttamente o indirettamente, influenzata dal pensiero marxista (Angelini, 1979, 1979a). Questo retroterra ideologico, poi svanito, ma così evidente in quella prima fase di attività, non poteva certo essere recepito positivamente dal rigido mondo psicoanalitico statunitense. Poiché i meccanismi di rimozione funzionano anche nella storia umana, questi primi interessi furono semplicemente trascurati e, poco o niente, citati. Veniva così accantonato e rimosso un periodo fecondo dell’impegno scientifico e sociale di un eccezionale pensatore. In quegli anni apparvero molti dei suoi lavori di argomento storico e culturale. E’ un periodo in cui l’interesse scientifico di Fenichel si mosse in sintonia con un profondo impegno civile e politico, nel tentativo di impiegare la psicoanalisi per meglio capire i grandi eventi sociali che sconvolgevano il mondo e le singole coscienze.
A distanza di tanto tempo è necessario accostarsi a questi contributi, qui esaminati con interesse storiografico, con la capacità di storicizzarne i contenuti e le forme espressive. Tale storicizzazione è un compito impegnativo, che non va sottovalutato, specialmente quando si prendano in esame gli scritti più marcatamente segnati dall’entusiasmo politico e ideologico. Questi lavori contengono l’enciclopedica conoscenza e il rigore metodologico del Fenichel psicoanalista e ricercatore scientifico. Contemporaneamente, sul piano sociale, esprimono gli slanci romantici di un uomo che, per una stagione della sua giovinezza, credette, generosamente, di poter cambiare la società con gli strumenti offerti dalla psicoanalisi e dalla politica.
Il periodo giovanile: Vienna e la mitteleuropa.
Fenichel nacque a Vienna nel 1897 in una famiglia ebraica, originaria dell’Europa orientale. Già mentre era studente al Ginnasio, Fenichel realizzò un questionario sulle esperienze sessuali giovanili, che distribuì nella scuola. Ottenne 54 risposte, ma rischiò di essere espulso a causa di questa iniziativa.
Fu un esponente della seconda generazione degli analisti, Siegfried Bernfeld,a esercitare la maggiore influenza sul giovane Fenichel.
Il primo significativo riferimento su di lui, nella letteratura psicoanalitica, compare nei Dibattiti della Società Psicoanalitica di Vienna. Proprio Siegfried Bernfeld, già ben noto come uno dei leader della gioventù socialista, tenne, di fronte alla Società, una conferenza sulla scrittura poetica dei giovani. La discussione che seguì vide l’intervento di un “ospite”, identificato come lo “studente in medicina, Fenichel” (Nunberg e Federn, 1962, 4, 296-99).
Siegfried Bernfeld, come Erich Fromm, Wilhelm Reich, Ernest Simmel e lo stesso Fenichel, appartenne a quel gruppo di psicoanalisti europei, nati tutti nell’arco di pochi anni, a cavallo del novecento, che mostrarono una particolare sensibilità alla dimensione politica e sociale. Essi non consideravano la psicoanalisi solo una teoria clinica, ma anche un mezzo per dare significato al momento storico che vivevano, oltre che alla loro personale vicenda umana.
Il primo contributo di Fenichel appare sulla rivista Jerubball ed è un saggio dal titolo Esoterik (1918-1919) carico di ribellismo e di filosofia nietzschiana. Nel lavoro, egli sostiene che per ottenere un vero cambiamento sociale è necessaria anche la trasformazione dei costumi sessuali. Queste idee offrono elementi di spiegazione, sul piano individuale, alle sue successive attenzioni per le teorie di W. Reich
Il successivo lavoro compiuto da Fenichel, prima del suo trasferimento a Berlino, avvenuto nel 1922, fu una riflessione critica su un saggio del pedagogista e riformatore Martin Luserke .
Nelle Riflessioni sul libro di Luserke (Fenichel, 1919)si indica una soluzione pedagogica rispetto alle contraddizioni poste dal “fattore soggettivo”, cioè dall’essere umano, nel processo di trasformazione della società. Le parole di Fenichel evocano il pensiero degli utopisti pre-marxisti e degli anarchici come Gustav Landauer. Scrive infatti: “Nessuna rivoluzione intacca la sostanza delle cose, finchè si limita a cambiare le istituzioni e ignora gli uomini che vivono in esse. Se è vero che gli uomini sono in funzione delle istituzioni, non è meno vero che le istituzioni, sono in funzione degli uomini. Perché una trasformazione della realtà sia radicale occorre afferrare le cose alla radice. E la radice è l’uomo. L’educazione cambia l’uomo”(Fenichel, 1919, p.309).
Psicoanalisi e società nella Berlino tra le due guerre
Con il trasferimento a Berlino, nel 1922, volto al completamento della sua formazione analitica, Otto Fenichel raggiunse uno dei massimi poli della cultura europea. Nonostante le terribili tensioni sociali, l’atmosfera politica e culturale della Germania di Weimar attirava le migliori intelligenze. Molti gravitavano verso Berlino. Come ha scritto O. Friedrich (1973, 24):
Marlene Dietrich, Greta Garbo, Josephine Baker, le grandiose produzioni del “Teatro dei 5000” di Marx Reinhardt, tre compagnie d’opera funzionanti contemporaneamente […] le prime rappresentazioni del Wozzeck e dell’Opera da tre soldi […]. Quasi in una notte, la capitale piuttosto seriosa dell’imperatore Guglielmo era divenuta il centro d’Europa, attirando scienziati come Einstein e Von Neumann, scrittori come Auden Isherwood, gli architetti e i grafici della Bauhaus […]. Al di là di tutto, Berlino rappresentò, negli anni Venti, uno stato d’animo, un sentimento di libertà e di euforia.
Purtroppo la capitale tedesca era anche caratterizzata da realtà politiche esasperate e da conflitti sociali esplosivi. I quindici anni della Germania di Weimar (1918-33) furono costellati da continui scontri di piazza e da delitti politici, che intimorirono le forze progressiste, mentre le crisi economiche stremavano le classi meno abbienti.
L’Istituto berlinese precedette la nascita di un Istituto ufficiale a Vienna. Fu frequentato da allievi di tutto il mondo e vantò uno straordinario corpo docente composto, tra gli altri, da Karl Abraham, Melanie Klein e dallo stesso Otto Fenichel, che insegnò negli anni Trenta, prima dell’esilio. Tra i frequentatori più noti dell’Istituto corre l’obbligo di ricordare, almeno, Karen Horney e Franz Alexander. Berlino fu il massimo centro di didattica e formazione per la psicoanalisi, superiore nell’organizzazione alla stessa Vienna. Solo dopo l’ascesa di Hitler, il fulcro dell’attività psicoanalitica ritornò nella capitale viennese. L’Istituto berlinese, negli intenti dei fondatori Eitingon e Simmel, era ispirato, oltre che al rigore scientifico, a valori liberali e sociali. Simmel, d’altra parte, era di convinzioni socialiste e, inizialmente, molte risorse furono utilizzate per rendere possibile la psicoanalisi a quanti non disponevano di risorse economiche personali. Riecheggiavano, in questo concreto progetto, alcune generali indicazioni di principio che lo stesso Freud aveva espresso durante una conferenza, tenuta a Budapest nel 1918, quando lamentò come “le necessità della nostra esistenza circoscrivono la nostra possibilità di intervento ai ceti superiori e benestanti della società”(Freud 1918, 26-27).
Nel periodo in cui Freud teneva la sua conferenza, veniva instaurata la Repubblica Sovietica d’Ungheria, che affidava a Sandor Ferenczi una cattedra presso l’Università di Budapest. Storicamente, fu il primo spazio accademico conquistato dal movimento psicoanalitico, anche se l’incarico durò quanto il governo stesso, circa cento giorni. Durante quella breve rivoluzione a György Lukács fu anche affidata la responsabilità di Commissario alla Cultura.
II fondatore della psicoanalisi riconobbe, in occasione del decimo anniversario dalla fondazione, i valori umani e sociali espressi dall’Istituto Psicoanalitico Berlinese, che si adoperava “per rendere accessibile la nostra terapia a quelle grandi masse di uomini e donne che, sebbene non soffrano meno, a causa delle loro nevrosi, di quanto soffrano i ricchi, non hanno tuttavia la possibilità di affrontare la spesa di un trattamento” (Freud, 1930, 29).
In questo contesto sorse, sempre a Berlino, il “Policlinico psicoanalitico”, sotto l’egida dell’Istituto. Esso conteneva un vero e proprio “Centro di prima consultazione” (Angelini, 2002), teso a stabilire un contatto organico tra le istituzioni psicoanalitiche e il mondo esterno; lo dirigevano due pionieri della psicoanalisi: Max Eitingon ed Ernst Simmel. L’elenco dei partecipanti comprendeva, assieme a Otto Fenichel, alcuni degli psicoanalisti più importanti di quel periodo, come Karl Abraham, Franz Alexander, Paul Federn, Edith Jacobson, Karen Horney e Melanine Klein. Una forte influenza fu anche esercitata da alcuni analisti ideologicamente vicini al partito socialdemocratico, come Helene Deutsch, Wilhelm e Annie Reich, Erich Fromm e Siegfried Bernfeld.
Il Policlinico berlinese rappresentò il primo contributo concreto della psicoanalisi alle trasformazioni della società occidentale e l’iniziativa, storicamente, ha un valore rilevante. Una caratteristica di questa istituzione era costituita dall’intento di offrire un servizio di consultazione e terapia psicoanalitica svincolato, al massimo, dalle capacità di pagamento dei vari pazienti. Ciò era possibile, in quanto la struttura fisica dell’istituzione, un grande appartamento al 29 di W. Potsdamer Strasse, era sovvenzionata da alcune donazioni e dalla generosità dei suoi partecipanti che, oltre a svolgere il loro lavoro senza compenso, contribuivano, in alcuni casi, al mantenimento.
Lo sfondo teorico lasciava chiaramente intendere una progettualità preventiva, rispetto al disagio psichico sociale. Non a caso il Policlinico di Berlino fu la prima istituzione psicoanalitica in cui si concretizzò l’attenzione e la ricerca nel campo della psicoanalisi infantile; poiché diversi bambini, provenienti da ceti sociali disagiati, giungevano all’esame degli analisti.
Nonostante l’impronta umanitaria e impegnata proposta da Eitingon e Simmel, l’Istituto berlinese, con la sua organizzazione gerarchica e il suo formalismo, scoraggiava, negli analisti più giovani, il confronto aperto, riguardo al piano sociale e politico. Fu così che Fenichel, pur avendo incombenze ufficiali nella struttura, volle organizzare e condurre un seminario al di fuori dell’Istituto.
Il gruppo divenne noto come “Seminario dei Figli” (Kinderseminar) e raccolse, in particolare, gli analisti più giovani e politicamente impegnati. Secondo lo stesso Fenichel, fu Eitingon a suggerire che i candidati più giovani avrebbero tratto profitto da discussioni condotte al di fuori dei corsi ufficiali. Il suggerimento fu raccolto e nel novembre del 1924 si svolse la prima riunione del Seminario del Figli (Jacoby, 1983, 63).
Ernest Simmel offre una versione diversa. Alcuni analisti più anziani avrebbero criticato gli incontri organizzati da Fenichel, per l’eccessiva enfasi posta sul collegamento tra psicoanalisi e socialismo. Egli avrebbe reagito dichiarando: “Se non vi piace il nostro modo di condurre le cose, allora saremo dei figli disubbidienti” (Simmel 1946, 70).
Gli incontri proseguirono finché fu in vita l’Istituto o, più precisamente, finché la maggior parte degli analisti non fu messa in fuga dal nazismo. Comunque la produzione scientifica del primi anni Venti non esprime, ancora, un Fenichel particolarmente impegnato sul versante sociale e politico. Un suo scritto del 1923, Psicoanalisi e metafisica, è ancora ispirato ai temi del movimento giovanile, ma si connota, nelle ultime righe, per l’esortazione alla ricerca di una “nuova etica” (Fenichel 1923, p.26).
Il gruppo del “Seminario del figli” si riuniva nelle abitazioni private dei partecipanti. Il numero dei presenti variava da cinque a venti. Si ebbero 168 incontri. Durante l’ultima riunione, tenuta nell’ottobre del 1933, prima che il gruppo si disperdesse, Fenichel tenne una relazione intitolata: Psicoanalisi, socialismo e compiti per il futuro.
Ciò era dovuto, sia alla situazione sociale oggettiva in cui operava, dove si approssimava l’avvento del nazismo, sia ai vincoli formali derivanti dalla sua frequentazione dell’Istituto Psicoanalitico Berlinese. In quel periodo, il lavoro di Fenichel testimonia un forte impegno sociale; numerose furono le conferenze sulle implicazioni politiche della psicoanalisi. In tale impegno egli mantenne, fino al termine della sua permanenza a Berlino, un atteggiamento moderato.
Con il suo gruppo, Fenichel prendeva le distanze tanto dalla psicoanalisi conservatrice, quanto dai neo-freudiani a orientamento culturalista, come la Horney, la Mead o Kardiner. La sua posizione era difficile, ma rigorosa. Contro il semplice culturalismo dei neofreudiani, ribadiva l’importanza dell’istinto e della sessualità. Contemporaneamente, come freudiano impegnato socialmente, denunciava il riduzionismo biologico e la miopia sociale della psicoanalisi ufficiale. E’ un equilibrio di concetti raro, dopo Freud, nella storia della psicoanalisi e della scienza stessa. Si tratta, per quanto non teorizzato, di un atteggiamento filosoficamente “dialettico”, ricollegabile a quel filone della dialettica che ha la sua origine in Hegel. E’ altresì la medesima posizione di metodo che era emersa in Russia, negli scritti di psicoanalisi di L.S. Vygotskij (1925) e soprattutto di A.R. Luria (1925). Fenichel avverte l’inderogabile esigenza di svincolare il pensiero psicoanalitico dalla meccanica separazione tra un soggettivismo magari biologizzante e uno storicismo mutuato dal marxismo a lui contemporaneo. Nella storia della psicoanalisi, questa sua posizione è, poco o nulla valorizzata, ma rappresenta la cerniera fra il patrimonio concettuale dei pensatori filopsicoanalitici sovietici e alcune importanti idee presenti nel movimento psicoanalitico occidentale.
Ancora sotto l’effetto di una “immersione” nel marxismo, Fenichel tocca, da psicoanalista, il delicato problema del rapporto tra ciò che i marxisti di allora definivano fattore soggettivo e la storia umana. Per la psicoanalisi, l’utilità del suo contributo consiste soprattutto nell’aver evitato una interazione meccanicista tra i due poli. Egli indica una sintesi superiore; individua una qualità diversa che, da queste due entità, si forma nella mente di una persona. Scrisse: “Le condizioni economiche non influenzano soltanto direttamente l’individuo, ma anche indirettamente, attraverso un mutamento della sua struttura psichica” (Fenichel, 1934, 49-50). Lo sforzo di Fenichel, allora influenzato dal marxismo, tendeva ad evitare una assolutizzazione del determinismo economico nelle vicende storiche, che avrebbe trascurato l’individuo e il soggetto. Contemporaneamente non voleva cadere nella trappola sempre aperta, sul versante della psicoanalisi: ovvero lo psicoanalismo metastorico. Probabilmente questa è una delle radici della sempiterna fedeltà di Fenichel al pensiero freudiano. Freud, a differenza di molti suoi epigoni e successori non può certo essere definito un fautore dello psicoanalismo (Rollins, 1978); come non si merita critiche, anche autorevoli (Sulloway, 1979), che vorrebbero collocarlo nel contesto biologista. Parimenti, non si può imputare al medesimo Freud, il desiderio di situare le origini della psiche individuale solo nel contesto ambientale o culturale.
Fenichel rimase sempre fedele all’originale pensiero freudiano, perché ne seppe percepire l’aspirazione all’equilibrio tra spinte interne ed esterne. Freud, pur senza avvalersi di concetti dialettici, dimostrò di rispettare, assieme alla dimensione istintuale, la profonda influenza dei fattori familiari e, in particolare, con la nozione di Super-Io, anche dei fattori culturali. La posizione di Fenichel era dotata di una profonda coerenza teorica ma, fra le beghe del mondo psicoanalitico di allora, riscosse pochi consensi.
In quel periodo, in Russia si andava completamente dissolvendo il movimento psicoanalitico. A partire dal 1931, fino al 1936, una serie di risoluzioni del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’URSS portò alla scomparsa dei più originali filoni di ricerca, in ambito scientifico. La psicoanalisi si dissolse (Angelini 2002a). Fenichel, per contrasto, in un paese avviato verso il nazismo, non percepiva i rischi sociali espressi dal modello sovietico. Anzi, proprio in quegli anni, andava maturando il suo massimo tributo al marxismo, che avrebbe pubblicato nel 1934 con il titolo La psicoanalisi come nucleo di una futura psicologia materialistico-dialettica.
Tuttavia, negli anni berlinesi, Fenichel fu conosciuto, prevalentemente, come chiaro sistematizzatore delle conoscenze psicoanalitiche, essenzialmente in virtù di opere cliniche. Esse restavano apparentemente estranee all’impegno politico, pur non mancando di offrire spunti di riflessione. Nel 1931 aveva dato alle stampe Perversionen, Psychosen, Charakterstorungen e Hysterien und Zwangsneurosen. Questi scritti furono pubblicati, in inglese, con il titolo: Outline of Clinical Psychoanalisys (1932).
Nell’introduzione al primo dei due testi, venivano presi in considerazione i parametri storici delle nevrosi, respingendo la biologizzazione come possibile criterio di metodo.
Per Fenichel, non si può ritenere che la nevrosi abbia la sua esclusiva origine nella situazione biologica del bambino. Non il complesso edipico, in sé, ma esperienze concrete originano la nevrosi e tali esperienze poggiano su premesse storiche complessive e reali, come l’ambiente e la condotta di insegnanti e genitori. Quindi le caratteristiche delle nevrosi cambiano col mutare delle strutture politiche, sociali e morali della società. La psicologia e la psicoanalisi non possono dunque spiegare tutto, perché la eziologia della nevrosi non è riducibile a un fattore patologico individuale, ma chiama in causa il fattore sociale. Per comprendere il complesso d’Edipo bisogna, anche, tener conto del contesto storico e della funzione sociale della famiglia. Fenichel affrontò questi temi storici e sociali nell’introduzione, proprio perché non intendeva concedergli spazio nel testo (Cfr. Jacoby, 1983, p.70).
A queste zone “più in ombra” tuttavia, avrebbe in seguito dedicato i Rundbriefe, le “Lettere circolari” spedite ai suoi colleghi durante l’esilio. I Rundbriefe erano appunto delle lettere battute a macchina, in più copie con la carta carbone, che Fenichel, per tutta la vita, scrisse e spedì affettuosamente ai suoi amici e colleghi del primitivo gruppo che si era raccolto, attorno a lui, a Berlino. Sono state reperite, negli archivi, 119 di queste circolari, spedite dal 1934 al 1945.
In diverse circostanze, nei Rundbriefe, appaiono considerazioni sulla situazione della psicoanalisi in Italia. Da queste semplici note ben emerge il serio metodo di lavoro di Fenichel. Anche rispetto a un gruppo psicoanalitico, come quello italiano, che era allora ritenuto irrilevante nel movimento internazionale, egli cercava di individuare le caratteristiche della situazione, sia esaminando i singoli dettagli, sia tramite una valutazione generale.
Nella Rundbriefe del marzo 1935, ci comunica che il dottor Stefano Dobò di Milano, che noi sappiamo essere tra i primi collaboratori della Rivista di Psicoanalisi, caldeggiava l’arrivo nella sua città di un analista straniero esperto, descrivendo ottime opportunità di lavoro (Reichmayr J., Mühlleitner E., 2001, 37).
In una comunicazione del 23 aprile 1936, esprimeva purtroppo la sua perplessa severità rispetto al riconoscimento, avvenuto nell’ultimo Congresso, del gruppo italiano, come Società Psicoanalitica affiliata. A suo parere mancava ancora una piena maturità scientifica.
Nella Rundbriefe del 6 settembre 1936 riportava un ridicolo ma significativo episodio, a lui narrato da Edoardo Weiss, il quale si trovava a combattere con le limitazioni imposte dal fascismo.
“Egli [Weiss], scrisse un libro sulla psicoanalisi che, come tutte le nuove pubblicazioni in Italia, dovette essere sottoposto a censura. Fu convocato al ministero competente, dove gli fu comunicato che doveva modificare un punto: vi era descritto un carattere isterico maschile, del quale si diceva che tende ad astenersi dal dare il proprio giudizio, a obbedire ciecamente al proprio ideale del momento e a «jurare in verba magistri». Si diede a intendere a W.[eiss] che questi non sono sintomi di un carattere isterico e che ogni italiano sano sente così davanti al Duce. Il punto dovette essere cancellato” (Ibidem, 39).
Due anni dopo, il 15 ottobre del 1938, commentava malinconicamente lo scioglimento del gruppo italiano: “ Delle Società analitiche che cadono vittime del «razzismo» fa ormai parte anche quella italiana. Il suo direttore, Edoardo Weiss, è emigrato. Egli si trova in questo momento in Svizzera, da dove pensa di ripartire per l’America. Degli altri colleghi italiani non ho sentito niente, ma suppongo che della psicoanalisi non sopravviverà molto in Italia” (Ibidem, 41). Weiss si sarebbe trasferito a Topeka, per lavorare con Karl Menninger.
L’anno seguente, il 7 giugno, una nuova comunicazione lascia intravedere la profondità e la ricchezza globale del sapere di Fenichel: “Dall’interessante e notevole libro di Ignazio Silone «La scuola dei dittatori», si apprende che Silone, con mia grande soddisfazione, conosce abbastanza bene la psicoanalisi” (Ibidem, 41). Infine, il 23 maggio 1940, l’ultima malinconica osservazione sul destino italiano della psicoanalisi: “In Italia, anche dopo la proibizione della «Rivista» e persino dopo lo scioglimento del gruppo psicoanalitico, Levi-Bianchini aveva pubblicato alcuni numeri dell’«Archivio Generale di Neurologia, Psichiatria e Psicoanalisi»…Ora anche questa rivista ha sospeso le pubblicazioni e precisamente, come Levi-Bianchini scrive nell’ultimo numero, «for reasons beyond our control»” (Ibidem, 42).
Questi problemi drammatici della psicoanalisi, affondavano le radici nella storia europea degli anni precedenti. Il 30 gennaio del 1933, il presidente Hindenburg aveva conferito ad Adolf Hitler l’incarico di cancelliere della Germania. Quattro settimane più tardi, il fuoco distruggeva il Parlamento tedesco, il Reichstag. Come molti altri, Otto Fenichel dovette emigrare e si stabilì a Oslo, dove trascorse due anni, prima di muovere alla volta di Praga.
Nel 1934 scrisse La psicoanalisi come nucleo di una futura psicologia materialistico-dialettica, dove si affronta l’argomento metodologico. L’approccio di metodo che egli qui propone vuole fondarsi sulla biologia, ma rappresenta un momentaneo arretramento, rispetto alle sue visioni complessive. Nella sua prospettiva, le esigenze biologiche umane, ovvero i bisogni, sono alla base sia dei processi psichici che degli stessi processi di produzione economica. Scrive infatti: “le basi materialistiche che pongono in movimento i processi di produzione sono giustamente i bisogni umani; e questi bisogni (benché derivanti da una fonte somatica, come diremo) sono di natura psichica” (Fenichel, 1934, 124).
La necessità di risolvere lo iato che verrebbe a crearsi tra mondo biologico e mondo psichico è affrontata in chiave empirica tramite la categoria dell’esperienza, la quale deve essere analizzata in una prospettiva che ne consideri, “sulla base delle scienze naturali” tutta la complessità.
La stessa dimensione psicoanalitica viene ricondotta alla dimensione dell’esperienza; ma quest’ultima, che pure non può scollegarsi dal criterio fisico della biologia individuale, viene elevata al nobile rango di fenomeno storico. Con linguaggio moderno, qui si vorrebbe passare dalla biologia alla biografia. Nell’ottica assunta da Fenichel, questo è un passaggio necessario, volendo proporre la psicoanalisi come nucleo di una psicologia, in grado di riempire il vuoto che appare tra momento sociale e momento individuale della struttura esistente. “Analizzare un uomo dal punto di vista psicoanalitico significa analizzarlo dal punto di vista storico-genetico, cioè stabilire come l’interazione di influssi ambientali e dati biologici abbia prodotto, a poco a poco, la struttura esistente. Tale indagine constata l’immensa preponderanza degli eventi della prima infanzia nella formazione di questa struttura. In questo senso la psicoanalisi può essere definita una scienza storica” (Fenichel, 1934, 135-136).
Nonostante questa equilibrata presa di posizione, il tono complessivo di questo lavoro propende a subordinare la psicologia alla biologia. Nell’identificare l’aspetto psichico del bisogno con la sua fonte somatica egli sottovaluta appunto la presenza storica del problema. E stato osservato come il richiamo alla situazione individuale biologica e psichica del bisogno umano, se non è inteso come fondamento materiale di un rapporto con la storia in cui interviene una dimensione qualitativa, cioè dei criteri di valore sociale e psicologico, sfocia in una concezione essenzialmente ideologica dei bisogni, che non è in grado per la sua indeterminatezza di produrre una teoria che li distingua e li comprenda (Heller, 1973).
La posizione di Fenichel, in questa fase giovanile della sua produzione, vuole sottolineare la primitiva istanza freudiana di fondare la scienza della psiche come scienza naturale. Per essa è implicita l’accettazione del ruolo del principio deterministico, cioè l’accettazione del postulato secondo cui, nel funzionamento della mente umana, esiste una causalità. Ma questo criterio della causalità, secondo Fenichel, non solo giungerebbe a informare e ordinare la struttura della teoria psicoanalitica e della psicologia in generale; esso, attraverso l’influenza delle strutture storico-sociali, determinerebbe i contenuti stessi della teoria. E’questo lo strumento di cui egli intende avvalersi per ricomporre i due mondi, quello naturale e quello sociale. Da una parte dunque un determinismo biologico, dall’altra un determinismo economico. Il compito di una psicologia, che egli definisce “dinamica”, dovrebbe essere, appunto, quello di studiare le interazioni fra ambiente sociale e individuo biologico.
L’ultima parte del saggio è dedicata ai rapporti che intercorrono tra la psicoanalisi e il campo di studio dell’antropologia. Vengono criticate le concezioni che Géza Rohéim, di ritorno da un lungo viaggio di ricerca fra i popoli primitivi in varie parti del mondo, andava in quel periodo organizzando ed esponendo. Fenichel rifiuta le idee di Rohéim, che impiega la chiave psicoanalitica per analizzare l’ambito storico-culturale; un esempio di psicoanalismo.
Appena un anno dopo, nel 1935, veniva redatto il testo di una conferenza tenuta a Praga, Il metodo psicoanalitico (1935b), poi pubblicata in inglese che, pur manifestando la massima attenzione per i “nessi storici” della dimensione psicologica, testimoniava il superamento dall’immersione nel marxismo.
Il metodo psicoanalitico è un piccolo compendio riassuntivo, magnificamente scritto, dello strumento rappresentato dalla psicoanalisi, sia in ambito terapeutico, sia rispetto alla ricerca. Nei riferimenti metodologici, Fenichel riconduce la psicoanalisi all’empirismo. Supera poi, lucidamente, la distinzione tra “normale” e “patologico”, proponendo esempi che suggeriscono freudianamente un comune modello dell’apparato psichico.
Lucidamente, esprime l’inutilità delle astrazioni, lontane dagli affetti in ambito terapeutico; perché “il paziente impreparato non può, in nessun modo, collegare le parole che ascolta dal medico con le sue reali coscienze emotive”.
Nel 1935, lo stesso anno in cui viene pubblicato Il metodo psicoanalitico, vede la luce un saggio assai più impegnativo, sul piano teorico: Una critica dell’istinto di morte.
Storicamente, il concetto di istinto di morte è stato tra i più dibattuti, dalla formulazione freudiana in Al di là del principio del piacere (1920) fino al periodo contemporaneo. In realtà, fin dal 1908, Alfred Adler aveva proposto, durante una riunione della Società Psicoanalitica Viennese, il concetto di pulsione aggressiva, nettamente rifiutato a quel tempo da Freud. Nel 1911, nell’ambito di una analoga riunione, l’idea di una vera e propria pulsione di morte era stata avanzata dalla psicoanalista russa Sabina Spielrein, cui Freud, nel 1920, riconobbe il merito di aver anticipato questo pensiero.
Secondo Fine (1979, 47), Freud inizialmente aderì ad un confuso monismo pulsionale che, nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), si esprime nel concetto di libido. In seguito, nel quadro dell’ultima teorizzazione, si volse ad un progressivo e sempre più netto dualismo, rappresentato dal contrapporsi tra pulsioni di vita, anche designate come Eros, tese ad instaurare unità psichiche ed esistenziali sempre più grandi, mantenendone la coesione, e pulsioni di morte o Thanatos, volte alla riduzione completa delle tensioni, ovvero a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Queste forze distruttive, inizialmente rivolte verso l’interno, verrebbero in seguito dirette verso l’esterno, manifestandosi sotto forma di aggressività e distruttività. Per altri versi, autori come Laplanche e Pontalis (1967, 446) sostengono il costante dualismo del fondatore della psicoanalisi.
Fin dalla prima metà degli anni trenta, Fenichel si schierò nettamente contro l’idea di una tendenza biologica verso la morte, polemizzando in alcune occasioni con Edoardo Weiss, il quale, utilizzando il termine destrudo, sosteneva appunto una simile ipotesi. Scrisse, nella Rundbriefe del 30 giugno 1935, riguardo ad una conferenza di Weiss, cui aveva assistito: “Il contenuto era press’a poco questo: scopo della distruzione è il «dolore privo di piacere». La libido è dominata dal principio di piacere-dispiacere, la destrudo (energia della pulsione di distruzione) dal principio di «sofferenza-non sofferenza». La destrudo è primariamente autodistruttiva, viene legata all’io e, legata con la libido, rivolta verso l’esterno. Il dominio della destrudo è quindi lo scopo di ogni forma di aggressione verso l’esterno. (Quindi non primariamente il dominio del mondo esterno, ma solo secondariamente). L’angoscia si origina sempre dalla liberazione della destrudo. Mi è sembrata una continuazione abbastanza coerente della teoria della pulsione di morte. Il mondo esterno di fatto non esiste più” (Reichmayr J., Mühlleitner E., 2001, 37). Fenichel mantenne, per tutta la vita, questa posizione nettamente critica, riguardo alla possibilità di una spinta primaria verso la morte. Considerava una simile idea contraddittoria rispetto alla teoria freudiana delle pulsioni e, riaffermando l’indivisibilità dell’aggressività dalla libido, riteneva sostanzialmente di rispettare le fondamentali indicazioni freudiane. L’amore e l’odio hanno una origine comune e ciò è confermato dalla capacità migratoria delle cariche energetiche. “Se delle quantità di energia – scrive Fenichel – possono essere trasposte dagli istinti sessuali agli istinti dell’Io e viceversa, allora così sembra a noi, gli istinti sessuali e dell’Io devono derivare da una origine comune. Non deve essa contenere sia l’Eros che la distruttività?”(Fenichel, 1935a, 105). Il conflitto nevrotico non nasce tra l’istinto autodistruttivo e quello autoconservativo, bensì tra l’istinto e le difese attivate dalle pressioni del mondo esterno. L’individuo secondo Fenichel, non tende al nirvana, ma manifesta un desiderio di stimoli che viene frustrato dalla realtà. Questa “pressione storica” del mondo, sugli istinti individuali ha, fondamentalmente, una origine sociale e culturale.
A questo proposito, è opportuno ricordare che, in quel periodo, diversi esponenti politici e filosofici del marxismo occidentale avevano iniziato a riflettere sul problema del “fattore soggettivo” nella storia. A differenza dei teorici sovietici, che progressivamente si andavano schierando contro la psicoanalisi, personalità di rilievo, come il politico socialista austriaco Max Adler (1930), si confrontavano con la psicoanalisi cercando di avvalersene per meglio comprendere il rapporto fra l’individuo e le “forze storiche”. Dal medesimo argomento era stato attratto György Lukàcs (1923) che, pur senza addentrarsi nella dimensione della singola persona, ragionava sulla centralità del “soggetto sociale”. Analogamente, anche Karl Korsch (1923) tese a salvaguardare la “sfera ideale” conferendole una relativa “autonomia dialettica” rispetto ai meccanismi storici. Si tratta di interventi che testimoniano la ricchezza di un ambiente intellettuale e sociale che, nonostante il progressivo diniego dei sovietici, vedeva nella psicoanalisi una presenza culturalmente significativa (Angelini 1988, cap.11). Fenichel, nella sua fase di accostamento al marxismo, si colloca idealmente in questo ambito, ma approfondisce il tema, andando oltre la filosofia e raggiungendo, tramite la psicoanalisi, la vera dimensione soggettiva.
La corrispondenza dei Rundbriefe, ovvero delle lettere circolari, intercorsa in quegli anni tra Fenichel e i suoi colleghi, testimonia la sua massima concentrazione riguardo alle problematiche sociali. In più circostanze si inserì nel dibattito scientifico che coinvolgeva personaggi storici della Psicoanalisi. Evidenziò i rischi del riduzionismo psicologico insito nelle idee di René Laforgue e Géza Rohéim. Entrambi, anche se con sfumature differenti presupponevano che i prodotti culturali e storici potessero essere spiegati nei termini della psicologia individuale. Proprio per questo, Fenichel riteneva l’antropologia psicoanalitica di Rohéim difettosa nell’elaborazione teorica, per quanto correlata da ricerche sul campo. Contemporaneamente, nella corrispondenza riguardante Michael Balint, volle prendere le distanze dal riduzionismo culturale. Balint era un discepolo ungherese di Ferenczi, inizialmente incline verso il biologismo; ma dopo la morte del suo maestro era precipitato, secondo Fenichel in un “estremo opposto” (Cfr. Jacoby, 1983, 94).
Anche in questa occasione, in cui Fenichel preferì esprimersi informalmente attraverso i Rundbriefe, il suo pensiero manifesta il tentativo di collegare, in un solo edificio concettuale, biologia e storia. In seguito, quando già si trovava negli stati Uniti, recensì il libro di Abram Kardiner (1939) L’individuo e la sua società, evidenziandone la eccessiva lontananza dalla teoria pulsionale.Si interessò anche delle opere di Margaret Mead e Karen Horney, cercando di mantenere, sempre, il medesimo, difficile, equilibrio teorico e clinico. Nel recensire il lavoro della Horney, (1937) La personalità nevrotica del nostro tempo, espresse pienamente i suoi timori riguardo al rischio di sottovalutare il ruolo della sessualità. D’altra parte, secondo Fenichel, la Horney, dopo aver letto la recensione, ribadì che essi divergevano in modo radicale sulla teoria delle pulsioni, dichiarando: “Io la considero come qualcosa che deve essere superato” (Cfr. Jacoby, 1983, 97).
Fu tuttavia con Erich Fromm che Fenichel ebbe il più ampio confronto. Per diversi anni, Fromm aveva fatto parte dell’Istituto per la Ricerca Sociale, la cosiddetta Scuola di Francoforte, assieme a Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse. Nel 1935, Fromm pubblicò un articolo sui fondamenti sociali della teoria psicoanalitica nella rivista della Scuola di Francoforte. Il saggio di Fromm attaccava la posizione terapeutica di Freud, tesa al non coinvolgimento personale con il paziente; questione già da tempo dibattuta, nell’ambito del movimento psicoanalitico internazionale. Primo protagonista storico di questo dibattito, intrapreso con Freud stesso, era stato Sandor Ferenczi. Fromm lodava infatti Ferenczi, perché aveva avuto il coraggio di favorire la presenza dell’affettività dentro il rapporto terapeutico. Freud restava, per Fromm, un liberale aristocratico del diciannovesimo secolo, corretto nel comportamento terapeutico, ma emotivamente incapace di disporsi in modo positivo verso la felicità dei suoi pazienti.
Fenichel respinse, le posizioni di Fromm, commentando, nella sua corrispondenza dei Rundbriefe, come le critiche di quest’ultimo ricordassero, per il metodo seguito, le idee di W. Reich che rimproverava a Freud di “non essere comunista” (Cfr. Jacoby, 1983, 98) e difese l’ortodossia freudiana come complessivamente più trasformativa e radicale delle innovazioni proposte da Ferenczi. A coronamento di questo periodo di riflessioni e confronti sul rapporto tra la psicoanalisi e la società, Fenichel pubblicò, nel 1938, il saggio Psicoanalisi e scienze sociali. Si tratta, in realtà, di una conferenza che egli aveva tenuto di fronte a una associazione culturale studentesca di Basilea.
E’ peculiare, in questo lavoro, la difesa del punto di vista psicoanalitico come realtà autonoma, sul piano filosofico e scientifico. Ciò viene fatto cercando di mantenere il difficile equilibrio con le concrete valutazioni di ordine storico e sociale. Per questo è necessaria una prospettiva teoricamente dialettica. Tutt’oggi, relativamente all’apparato psichico, l’atteggiamento “psicologista” o “sociologista” sono presenti in ambito scientifico, ove non si scivoli nel riduzionismo biologico, quando devono essere presi in considerazione i complessi rapporti tra individuo e società. Il proponimento, manifestato da Fenichel, di mantenere questo difficile equilibrio lo rende antesignano di un più adeguato e complesso modo di concepire il problema. Un modo che, anche in epoca contemporanea, ha difficoltà a emergere con semplicità e fermezza.
Nella Rundbriefe del 25 giugno 1938, diede il suo addio ai colleghi europei, scrivendo: “Il destino della psicoanalisi non dipende più dalla capacità che avremo noi, psicoanalisti naturalistici, di opporci a «deviazioni mistiche» all’interno della nostra scienza. I processi che si svolgono all’interno del cosiddetto «movimento psicoanalitico» ormai non hanno alcuna importanza. Il destino della psicoanalisi dipenderà, in generale, dal destino del mondo e della scienza dove, a ogni modo, si può ancora ammirare il principio della dialettica: essi [i nazisti, n.d.a.] devono distruggere la scienza perché intacca la sacralità delle loro ideologie, che devono restare assolutamente sacre. Allo stesso tempo essa [la scienza] si tiene ancorata al potere, ma con l’aiuto della tecnica, e non può esservi tecnica senza scienza. Speriamo che questa contraddizione possa un giorno creare loro serie difficoltà” (Reichmayr J., Mühlleitner E., 2001, 40). Il 7 giugno 1939, una nuova comunicazione lascia intravedere la ricchezza globale del sapere di Fenichel. In quell’epoca, quando si trovava già negli Stati Uniti dal 1938, accenna alla situazione italiana: “Dall’interessante e notevole libro di Ignazio Silone La scuola dei dittatori, si apprende che Silone, con mia grande soddisfazione, conosce abbastanza bene la psicoanalisi”.
Il periodo Americano
Rispetto agli sviluppi teorici della psicoanalisi in campo sociale, uno dei contributi più importanti di Fenichel, durante il periodo americano, è rappresentato da una lunga recensione critica al libro, pubblicato da Erich From, nel 1941, Fuga dalla libertà. E’ un lavoro di stampo sociologico, in cui Fromm si allontana dalla psicoanalisi classica. Va premesso che la posizione storica di Fromm viene, in linea di massima, collocata nell’ambito dei cosiddetti “Neo-freudiani”; ovvero negli USA, all’interno della “Scuola culturalista”, rappresentata essenzialmente da Harry Stack Sullivan, Karen Horney, Clara Thompson, Abraham Kardiner e, nel settore antropologico, da Margaret Mead. Costoro si discostavano dall’ortodossia biologica e tendenzialmente medicalizzata della psicoanalisi americana per offrire più attenzione alle dimensioni interpersonali e ambientali. Va comunque precisato che, con le dovute distinzioni, il termine “cultura” non aveva per loro quel significato, proveniente dal filone marxista europeo, di una dimensione storica che addirittura funziona da agente umanizzante dell’individuo.
In effetti, il punto di partenza della complessiva critica culturalista a Freud è la sottovalutazione che egli avrebbe dimostrato circa l’incidenza dell’ambiente sociale, economico e culturale sul destino evolutivo del soggetto. Anziché soffermarsi sulla dimensione storica del conflitto tra individuo e ambiente, Freud avrebbe preso la via riduttivistica di una teoria biologico-pulsionale del soggetto, il cui destino viene in pratica determinato, nei primi anni di vita, da vicende legate allo sviluppo sessuale.
Tuttavia, proprio nel contesto di un famoso convegno sull’inconscio organizzato dai sovietici e tenutosi nel 1978, per la prima volta in Russia, a Tblisi, nella Repubblica Georgiana, diverse voci si alzarono per contestare questa prospettiva intrisa di conformismo pseudomarxista. In particolare l’americana N. Rollins (1978) polemizzò correttamente con queste accuse, giungendo a delineare un paradosso. Ella fece notare che la psicoanalisi considera il Super-Io, principalmente, un effetto dell’ambiente e dell’educazione ricevuta dai genitori, nell’ambito familiare. Da questo punto di vista, si potrebbe addirittura affermare che la psicoanalisi finisce per sopravvalutare il ruolo dei fattori sociali (Angelini, 2008). Sono osservazioni che rimandano a sostanziali questioni di metodo. Si tratta, di uscire dalla rigida altalena che estremizza e separa i due punti di vista: biologico e culturale. Purtroppo, tale suddivisione ha prosperato per tutto il secolo scorso. Conformandosi ad essa, come tra gli altri ha fatto puntigliosamente Sulloway (1979), il pensiero freudiano viene collocato in una area determinista che fa cadere l’accento sul passato e sulla costituzione biologico-istintuale del soggetto. Il culturalismo tenderebbe, invece, a spostare l’attenzione dal passato al presente, dalla natura alla cultura, dall’individuo alla relazione sociale; magari evocando un determinismo totalmente storico e culturale.
Questa dicotomia ha rappresentato, ed è tuttora, la principale trappola teorica sulla strada di chiunque intraprenda una riflessione metodologica sulla psicoanalisi.
Sebbene in una prospettiva originale, anche Fromm, in Fuga dalla libertà (1941), finisce per omologarsi a questa suddivisione e tende a collocare l’opera di Freud sotto il dominio del biologismo.
Fenichel osserva, correttamente, come la critica a Freud, di Fromm, si trasformi spesso in una semplificazione arbitraria del suo pensiero, riducendosi a polemica.
La divergenza di opinioni tra Fenichel e Fromm traeva origine, come si è scritto, da dibattiti sorti negli anni precedenti. Nel recensire Fuga dalla libertà, Fenichel si trovò di fronte a una difficoltà già sperimentata. Egli condivideva, per molti versi, l’attenzione posta dai neofreudiani sulle categorie sociali e storiche. Quest’ultimi però, nella loro ansia di trasformare la psicoanalisi, ne avevano abbandonato lo spirito critico e gli aspetti peculiari, attinenti le qualità dell’inconscio e la sessualità. Fenichel era consapevole che la propria posizione, rispetto ai neofreudiani, richiedeva un orecchio teorico finemente intonato.
La combinazione era difficile da realizzare, ma era quella che Fenichel aveva sempre proposto. Da una parte un solido aggancio alla realtà dei fenomeni istintuali e della sessualità. Dall’altra, una lucida critica al riduzionismo biologico e al disinteresse sociale della psicoanalisi ufficiale. Salutava quindi, nei neofreudiani, dei possibili alleati, ma criticava contemporaneamente il loro revisionismo. Su questo punto era schierato con il cosiddetto conservatorismo psicoanalitico, con cui, per il resto, aveva poco in comune.
Nella sua mente era presente il bisogno di una sintesi: “L’uomo è governato da determinati impulsi fondamentali biologici, che non presentano affatto delle forme rigide, ma che si formano e sviluppano a seconda delle esperienze di soddisfazione e di frustrazione avute, ovvero tramite le forze sociali. Il modo in cui e il come le forze sociali formino la mente individuale diventa comprensibile in dettaglio grazie alla conoscenza degli impulsi inconsci e della loro capacità di dislocarsi. Freud ha detto: l’uomo é un essere istintivo, spinto da forze innate. Fromm ha detto: l’uomo è innanzitutto un essere sociale. Non vi è contraddizione tra queste due affermazioni” (Fenichel, 1944, 128). La recensione si conclude con un giudizio sintetico che esplicita il pensiero di Fenichel: “Il libro di Fromm può in generale venire considerato così come facciamo con gli scritti di Kardiner e della Horney. Costoro vogliono evitare e correggere gli errori che la psicoanalisi ha ammesso di aver fatto, abbandonando del tutto la stessa psicoanalisi, invece di farne una migliore applicazione” (Fenichel, 1944, 141).
Un adeguato impiego della teoria psicoanalitica nel sociale, che Fenichel sempre cercò, preoccupandosi contemporaneamente di non scivolare nello psicoanalismo, appare nell’interessante lavoro Elementi di una teoria psicoanalitica dell’antisemitismo, pubblicato in un volume a cura di E. Simmel, nel 1946. Scrive Fenichel: “L’antisemita giunge al suo odio per l’Ebreo attraverso un processo di spostamento, stimolato dall’esterno […] In esso non vede soltanto un oppressore sociale, ma anche il portatore della sua stessa pulsionalità inconscia, un individuo che ha sviluppato un carattere cruento, sporco e orribile sulla scia di una serie di repressioni socialmente indotte. L’antisemita può compiere questa proiezione sugli Ebrei grazie alle particolarità reali delle vita ebraica, la stranezza della loro cultura mentale, le loro peculiarità fisiche (nero) e religiose (il Dio dei popoli oppressi) e le loro antiche usanze, tutti elementi che fanno degli Ebrei un oggetto molto adatto di proiezione” (Fenichel, 1946, 26, 27).
L’ultimo scritto di Fenichel, pubblicato anch’esso nel 1946, con il titolo Alcune osservazioni sulla collocazione di Freud nella storia della scienza, risulta dedicato a esaltare il valore, scientificamente conoscitivo, del pensiero freudiano e la sua capacità di sostituire, con ragionevoli spiegazioni, fenomeni che precedentemente appartenevano al mondo magico e religioso. Contemporaneamente, in una meditata prospettiva sociale, il lavoro ricorda, nella prima parte, come la psicoanalisi possa rappresentare, per certi aspetti inconsci che va a svelare, una offesa narcisistica alla collettività.
Un pensiero
Otto Fenichel è conosciuto e studiato, quasi esclusivamente, per i suoi lavori clinici e tecnici.
Anche questo è un esempio di rimozione. Un tipico esempio della rimozione che il pensiero psicoanalitico ha subito per tutto il novecento. Attualmente, gli istinti e il corpo sfumano, quasi scompaiono; ma anche le prospettive legate alle dinamiche con l’ambiente, quando si avvicinano troppo alla fisicità pulsionale dell’individuo, finiscono per evaporare. Il potere esplicativo della psicoanalisi, che può affondare nella storia umana come la lama di un coltello, non viene utilizzato. Sappiamo che nelle società autoritarie la psicoanalisi viene eliminata. Forse nelle, società democratiche, questo “annacquamento” è il prezzo che essa storicamente deve pagare per sopravvivere. Così acquista un maggior senso l’invasione reiterata di teorie psicologiche, spesso improbabili ed effimere, che riescono però a “spostare l’attenzione”, dal primato degli istinti e dell’inconscio, su temi più accettabili.
Nei casi meno peggiori, si è verificata la semplice, meccanica mutilazione di parti dell’originario pensiero freudiano che, prescindendo dalle convinzioni degli autori, sembrava avere l’effetto di rendere la psicoanalisi più “digeribile” per il sistema dei valori dominanti della società in cui era immessa. E’ questa una possibile interpretazione storica anche della “medicalizzazione” e della pseudo “culturizzazione” che la psicoanalisi subì, intorno alla metà del secolo, diffondendosi negli Stati Uniti. Da una parte, attribuire l’esercizio della psicoanalisi esclusivamente ai medici, identificava lo strumento psicoanalitico, prima di tutto, come un mezzo terapeutico. Ciò anche se era noto che lo stesso Freud aveva proposto l’indagine psicoanalitica, per le sue vaste implicazioni antropologiche e culturali, come qualcosa di più profondo e più potente rispetto a una terapia. D’altra parte, la “culturizzazione” statunitense della psicoanalisi passava attraverso la sottovalutazione, o perfino l’abbandono, della teoria delle pulsioni, accompagnandosi così al disinnesco di quel terreno minato rappresentato dalla sessualità, infantile e non (Angelini, 2009, 69-70). Questa psicoanalisi, così “ammaestrata” finiva per trovare, quasi esclusivamente nel perfezionamento della tecnica e della clinica, lo scopo degli sforzi dei suoi adepti. Le possibili riflessioni storiche, politiche e culturali che avrebbero potuto rappresentare una critica, anche parziale, verso l’assetto della società costituita venivano trascurate, salvo poi divenire oggetto di riflessione di filosofi, come Marcuse ed altri, interni al movimento psicoanalitico, ma estranei alle istituzioni della psicoanalisi. La formazione della personalità veniva compressa e incastrata in un universo sociale razionalizzato, impoverendo l’autonomia e l’indipendenza del singolo. Si realizzava la collocazione conclusiva di una psicoanalisi intesa come nuovo strumento da aggiungere per l’osservazione e lo studio di specifici campi del sapere. Una sorta di “psicoanalisi applicata”, per quanto riguarda gli USA, in senso eminentemente medico.
Tuttavia la “applicazione della psicoanalisi” è un atteggiamento che coinvolse, in molti casi, anche le discipline sociali e antropologiche. In realtà, secondo una valutazione storica, la forza originaria della psicoanalisi è stata proprio quella di potersi confrontare dall’interno delle diverse discipline. Questo, sul piano metodologico, è il motivo per cui la proposta freudiana, pur nel mutato contesto teorico, ha conservato, relativamente alla teoria sociale, delle eccezionali capacità conoscitive e critiche ed è perciò esposta a contestazioni dirette o indirette.
Concetti clinici
Nella storia del movimento psicoanalitico, Fenichel è conosciuto soprattutto come un sistematizzatore ed un organizzatore dei concetti clinici. Effettivamente, la sua opera più nota, il Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi (1945), rappresenta un superbo esempio didattico ed espositivo. D’altra parte, come è ovvio, si tratta anche di un’opera non superata, ma datata, in quanto non vi trovano spazio i significativi sviluppi nell’ambito della psicologia dell’Io, della teoria delle relazioni oggettuali, della psicologia del Sé e le varie articolazioni del pensiero psicoanalitico attuale. Essa rappresenta, piuttosto, un quadro completo dei concetti appartenenti alla psicoanalisi della prima metà del secolo scorso, carico di intuizioni feconde per la contemporaneità. Una vera e propria Enciclopedia della psicoanalisi classica, a cui, scrive Etchegoyen (1986, 776): “Tutti facciamo riferimento per calibrare i nostri strumenti teorici”.
Analogo parere viene espresso da altri autori contemporanei, come ad esempio la McWilliams, che in un saggio sulla diagnosi psicoanalitica, caldeggia, in più occasioni la necessità e l’utilità, ai fini diagnostici, di uno studio accurato di Fenichel (McWilliams, 1994, 86, 166, 281).
Per questa grande sua abilità tecnica e organizzativa dei concetti, sarebbe quindi erroneo collocare Fenichel, nel campo occupato da quei grandi pensatori psicoanalitici tendenti all’astrazione e poco affini ai temi sensibili dell’affettività e delle emozioni. Per inciso, proprio riguardo alla dimensione umana dell’analista, ricordiamo che Fenichel, trattando il controtransfert, rilevò relativamente presto, nel 1941, che proprio la paura del medesimo può portare l’analista a frenare ogni spontaneità umana nelle sue reazioni verso il paziente. I pazienti che precedentemente erano stati trattati da un altro analista, manifestavano la loro sorpresa per la libertà e la naturalezza di Fenichel, il quale si discostava nettamente dal modo in cui, prevalentemente, veniva esercitata la psicoanalisi in quel periodo storico. Avevano creduto che l’analista fosse qualcosa di speciale e che non gli fosse permesso di essere umano; mentre egli riteneva che avrebbe dovuto prevalere proprio l’impressione opposta; il paziente aveva bisogno di poter sempre contare sull’umanità del suo analista (Fenichel, 1941, 79). La critica di Fenichel agli analisti che cercano comunque di essere uno specchio perfetto è stata evidenziata anche da H. Thomä e H. Kächele (1985, vol.1°, 337).
Le rare testimonianze personali lo descrivono come una persona affettuosa e generosa. Valgano, tra le altre, le parole di R.R. Greenson che conobbe Fenichel come terapeuta, docente e supervisore dal 1938 al 1946, anno della sua morte. “Con mia grande sorpresa e gioia, trovai un sorriso disarmante, un caldo interessamento e un’affabile schiettezza (Greenson, 1966, 376). Nonostante ciò, lo stesso Greenson, (1967), lamentò una certa scarsezza nel numero degli effettivi resoconti clinici offerti dal suo maestro. Forse, come osservano sempre Thomä e Kächele (1985, vol.2°, 29), queste critiche derivano dal fatto che nelle classiche opere di Fenichel (1941, 1945) si parla poco di come concretamente lavora l’analista, di ciò che egli sente, pensa e fa. Ma sono critiche che vengono anche estese ad altri importanti autori di quel periodo, come Sharpe (1940), Glover (1955) e Menninger e Holzman (1958).
La sua maggiore preoccupazione, fin dai primi anni della sua attività, fu piuttosto quella di bilanciare le spinte che, all’interno del movimento psicoanalitico tentavano di confinare la clinica nel recinto di una empiria irrazionale. Questa spinta verso l’irrazionalità veniva fatta appellandosi alla medesima irrazionalità dell’inconscio, e nobilitando la proposta con concetti provenienti dal mondo dell’arte, come l’intuizione e la sorpresa, che avrebbero dovuto limitare le aspirazioni teoriche e tecniche della psicoanalisi. Fenichel non rifiutava queste idee ma, come sempre nel suo pensiero, il problema era costituito dall’equilibrio fra le diverse, tutte necessarie, posizioni; tra il pensare e il sentire.
Le critiche, in parte utili, verso una eccessiva teorizzazione e sistematizzazione delle idee psicoanalitiche, evidenziavano anche il rischio di contrapporre, le une contro le altre, le organizzazioni mentali dette patologiche, secondo un principio di incompatibilità; mentre appariva più opportuno ammettere una pluralità di organizzazioni mentali capaci di articolarsi le une con le altre. Inoltre, come hanno bene evidenziato i De Mijolla (1996, 482), va sottolineato che, per Fenichel, il vantaggio della classificazione era, prima di tutto, euristico; corrispondeva, cioè, essenzialmente ad una strumentazione utile per progredire nello sviluppo della ricerca e della conoscenza.
Fin dagli anni trenta, egli si dichiara a favore della necessità di organizzare sia gli aspetti teorici, sia gli aspetti tecnici della psicoanalisi, contrastando le concezioni di T. Reik (1924, 1933) che, come è noto, si opponeva a ogni tipo di sistematizzazione in ambito psicoanalitico.
In un articolo pubblicato sull’Internationale Zeitschift für Psychoanalyse del 1935, Fenichel esamina i concetti esposti da W. Reich, in quel periodo, in varie pubblicazioni e commenta un altro articolo, pubblicato l’anno prima da H. Kaiser (1934) sulla stessa rivista. In questo contesto si pone il classico problema della metapsicologia dell’interpretazione. Quest’ultima cerca di rendere cosciente l’inconscio; il che d’altra parte, coincide con la teoria della cura. Sull’interpretazione, Fenichel argomenta, a partire dalle modalità con cui essa va impartita. Nei Problemi di tecnica psicoanalitica (1941), sottolinea che la tecnica espressiva deve essere sintetica ed efficace. Si interpreta spesso il lato nascosto di un conflitto di cui il paziente percepisce una sola area affettiva. Per esempio, se una persona si vanta della sua preparazione e della sua autonomia intellettuale, l’analista potrebbe osservare: “Però ha timore di ciò che penso di lei!”. Un intervento del genere, nel contesto di un classico problema nevrotico, rende consapevole il paziente di una parte della sua esperienza soggettiva, che viene tenuta fuori dalla coscienza. In questo contesto, anche a prezzo di una leggera ferita narcisista, può realizzarsi un ampliamento della consapevolezza. Ma la stessa modalità non potrebbe funzionare in un contesto psicotico. In questo caso, si presenta la tendenza a oscillare tra i diversi stati dell’Io, invece di una identità complessa, dove ambivalenza e ambiguità sono tollerate. Non esiste un Io osservante sufficientemente forte, in grado di elaborare l’interpretazione come una informazione supplementare sul proprio stato.
Rispetto al rapporto dell’interpretazione con l’inconscio, Fenichel osserva che, nell’accettare la prospettiva classica che vede la terapia come un disvelamento di ciò che non è presente alla coscienza, è necessario valutare il significato del termine inconscio. Esso infatti ha diverse accezioni, che vanno di pari passo con la metapsicologia. Fenichel sostiene che T. Reik confonde la natura irrazionale dell’inconscio con la tecnica per conoscerlo. In effetti, se l’analista potesse operare solo con l’intuizione, allora la sua tecnica potrebbe essere solo un’arte e mai una disciplina scientifica. E’ questa una ulteriore testimonianza della puntuale battaglia che Fenichel combattè contro l’irrazionalismo metodologico nella psicoanalisi. Per prevenire questa deriva egli sostenne che ci si debba basare su principi metapsicologici e, in particolare, sul punto di vista economico. Il lavoro interpretativo deve avere necessariamente inizio da ciò che sta alla superficie psichica; gli atteggiamenti difensivi dell’Io sono sempre più superficiali delle pulsioni istintuali dell’Es. Su ciò, peraltro, poggia la formulazione freudiana secondo cui l’interpretazione della resistenza deve precedere l’interpretazione del contenuto, basata sul punto di vista dinamico-strutturale. Sostanzialmente, viene ribadito che sul piano tecnico, nella situazione psicoanalitica, sono centrali gli affetti. Un autore contemporaneo come Kernberg (1992, 101) afferma: “Come Fenichel (1941) credo che i fattori economici, dinamici e strutturali forniscano i criteri ottimali per decidere quando, che cosa e come interpretare i conflitti inconsci del paziente, i loro aspetti difensivi e impulsivi e, vorrei aggiungere, le relazioni oggettuali inconsce in cui essi sono interiorizzati. Il criterio economico per il materiale che deve essere interpretato all’interno di qualsiasi seduta psicoanalitica, o parte di seduta, è che il materiale sia collegato alla prevalente disposizione affettiva del paziente”.
Nella prospettiva economica ricade anche il concetto di sublimazione. Esso ha avuto, storicamente, una grande diffusione e ha rappresentato, per molta parte del novecento, un modo comune di considerare diverse inclinazioni individuali. Attualmente, questa prospettiva trova meno spazio nel pensiero psicoanalitico e anche nell’uso popolare, perché la teoria pulsionale ha perduto la propria centralità. Per Freud, la sublimazione permette di esprimere, in una forma socialmente valida, degli impulsi di origine biologica. Si tratta sostanzialmente di una difesa che, in primo luogo, favorisce un comportamento positivo per la specie. In secondo luogo, la sublimazione scarica il relativo impulso, invece di sprecare una notevole quantità di energia trasformandolo in qualcosa di diverso, come accade nella formazione reattiva, o controreagendo ad esso con una forza opposta, come avviene nel diniego o nella rimozione. Anche per Fenichel (1945) la possibilità di scaricare l’energia è considerata decisamente positiva, poiché mantiene l’organismo nell’appropriata omeostasi e anche oggi, secondo la McWilliams (1994, 165), il concetto di sublimazione possiede attualità, nella letteratura psicoanalitica.
E’ sempre nel rispetto della prospettiva economica che Fenichel sentì il bisogno di intervenire, sia pur privatamente, nel dibattito suscitato dallo scritto di Freud del 1937, Analisi terminabile e interminabile. In questo lavoro, Freud descrisse ulteriormente il posto assegnato alla pulsione di morte nella cura. L’articolo provocò un notevole sommovimento, seminando lo scoraggiamento nei ranghi psicoanalitici. Come nota Shapiro (2003), fu un evento centrale nella storia della tecnica psicoanalitica perché segnò la fine dell’illusione tanto amata di una “psicoanalisi completa”. Si verificarono varie reazioni; in particolare la pubblicazione di scritti che rispondevano al pessimismo del maestro.
Anche Fenichel reagì prontamente, ma il suo pensiero, come spesso gli accadeva, prese la forma di una lettera circolare e non di una pubblicazione (Cfr. Reichmayr e Mülleitner, 1998). Per questo, anche se è collocabile a pochi mesi dall’articolo di Freud, non è possibile attribuirgli una data precisa. Il lavoro venne poi pubblicato nel 1974 nell’International Review of Psychoanalysis ed ha un valore sia clinico, sia storico, perché dimostra come lo scritto di Freud abbia fatto discutere la generazione di analisti successiva
Nella prospettiva clinica, il concetto di pulsione di morte ha provocato disaccordo e controversia perché ha avuto un forte impatto sul tema del termine dell’analisi. Infatti, poiché nel corso del trattamento l’impatto della pulsione di morte può diminuire in favore della pulsione di vita, ma non può essere mai eliminato, diventa difficile decidere quando è il momento di terminare l’analisi. Inoltre, anche dopo la conclusione del trattamento, l’età, la malattia, le perdite e altri eventi traumatici possono mutare l’equilibrio delle forze, spostandolo ancora una volta in favore della pulsione di morte e del suo manifestarsi nella direzione depressiva.
Nel suo lavoro, Fenichel (1974, 111) critica specificamente l’affermazione di Freud secondo cui l’Io è per natura sempre ostile alle pulsioni, sostenendo invece che, se l’Io è in grado di controllare le pulsioni indesiderabili, può guidare la persona verso una gratificazione realisticamente possibile delle richieste pulsionali. Contro l’affermazione di Freud che non fosse possibile e nemmeno desiderabile analizzare i conflitti latenti, Fenichel (1974, 112) sostiene che nel processo analitico i conflitti latenti sono sempre mobilitati e analizzati e non sono mai completamente latenti. Bergmann (2005, 403), ipotizzando che questa posizione potesse essere alimentata anche da difficoltà terminologiche osserva altresì: “Fenichel ha ragione: i conflitti latenti sono continuamente portati in superficie durante l’analisi; questo non significa però che nell’analisi – per esempio – di una donna nubile e senza figli si possa analizzare un conflitto futuro tra la maternità e il desiderio di un avanzamento di carriera. Alcuni problemi latenti emergono nel trattamento psicoanalitico, altri no”. Sul piano teorico, la critica di Fenichel alle proposte di Freud è radicata nell’avversione che egli nutre rispetto alla teoria freudiana della pulsione di morte. Questa opposizione fu condivisa, come si è scritto, da molti psicoanalisti socialmente impegnati della sua generazione.
Il tema della “interminabilità” dell’analisi, sia sul piano clinico, sia per quel che riguarda la durata delle analisi didattiche, è emerso nella storia del movimento psicoanalitico, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Bergmann (2005) sostiene che, proprio in quel periodo la durata delle analisi si è estesa da alcuni mesi ad alcuni anni; da analisi terminabili ad analisi interminabili.
Nello stesso periodo, specialmente sotto l’influsso di Loeweld negli Stati Uniti e di Winnicot in Inghilterra, l’obiettivo dell’analisi è progressivamente cambiato, passando dall’eliminazione dei sintomi dolorosi e dei tratti caratteriali nevrotici alla ripresa del processo di crescita ed evoluzione. Loeweld e Winnicot intesero indicare nuovi obiettivi per la psicoanalisi. Essi sostennero che la nevrosi rappresenta un ostacolo al pieno sviluppo della persona e che la psicoanalisi è una tecnica che rende l’ex analizzando capace di continuare a crescere anche dopo il termine dell’analisi.
Storicamente, le iniziali ipotesi cliniche freudiane sull’origine delle nevrosi, indicavano un arresto nello sviluppo della pulsione sessuale, che comportava una fissazione a stadi libidici pregenitali. Riguardo al tema specifico della depressione, Fenichel (1945) si pose in linea con questa teoria classica, sorta con Freud (1917a) e proseguita con Abraham (1924), per la quale persone che siano state eccessivamente viziate o deprivate restano fissate allo stadio infantile in cui ciò è accaduto. Si ritiene che gli individui depressi siano stati svezzati troppo presto o troppo bruscamente, o abbiano subito qualche altra frustrazione precoce andata oltre le loro capacità di adattamento. Come osservano Fisher e Greenberg (1977, 157, 177), Fenichel si interrogò approfonditamente su quali siano i tipi di comportamento parentale che, con maggiore probabilità possano favorire i processi di fissazione. Nella tipica prospettiva psicoanalitica, la situazione depressiva è collegata, nelle persona, a tratti “orali”: il cibo, il bere, il parlare, eccetera. Analogamente, anche per la maniacalità, Fenichel (1945) ritiene, come per chi è affetto da problemi depressivi, che le persone maniacali siano orientate lungo la linea dell’oralità. Esse tendono a parlare e a intrattenere coloro che frequentano; ma la loro generica ed esagerata motilità suggerisce una notevole angoscia sottostante. Quando un affetto negativo appare in individui con personalità maniacali o ipomaniacali, non si manifesta come dispiacere o delusione, ma come rabbia e a volte nella forma di episodi improvvisi e incontrollabili. In questa direzione, Fenichel giunge anche alla descrizione dell’acting out; termine usato, in generale per descrivere un comportamento indotto da bisogni inconsci di padroneggiare l’angoscia associata a desideri e sentimenti interiormente proibiti e a paure, fantasie e ricordi intensamente disturbanti. Per Fenichel (1945), mettendo in atto scenari spaventosi, la persona internamente angosciata converte la passività in attività e trasforma il senso di impotenza e vulnerabilità in una esperienza di azione e di potere. Ciò a prescindere da quanto possa essere negativo il dramma che viene rappresentato.
In un diverso contesto clinico, anche Searles (1965, 169), in uno scritto sulla schizofrenia, esprime un debito di riconoscenza verso Fenichel, perché le sue indagini sui tratti orali e dipendenti della personalità aiutano a riconoscere chiaramente l’importanza dell’angoscia di separazione nella vendicatività presente in molti schizofrenici.
Fin dai suoi primi lavori sulla tecnica della clinica psicoanalitica, Fenichel (1935) critica anche, in alcuni passaggi, la tecnica di Melanie Klein (1932), che cercava di produrre un contatto diretto con l’inconscio. Del resto, in più circostanze, egli ha dimostrato di dissentire profondamente dal pensiero della Klein. Fenichel muove la propria critica non riguardo alle osservazioni e ai risultati clinici che ella ha prodotto e che ritiene invece importanti, ma rispetto all’utilizzo che la Klein, teoricamente, ne fa. In questo contesto, secondo Fenichel, vengono introdotti concetti estranei al sapere empirico e con una terminologia impropria (Reichmayr J., 2001, 36).
Sebbene appaia concorde con alcune proposte di Reich, esprime anche varie divergenze teoriche e tecniche rispetto al medesimo. In primo luogo non è completamente d’accordo con l’idea della stratificazione del materiale, che gli risulta troppo schematica. L’ordine del materiale non è assoluto e può addirittura comparire in forma caotica, a prescindere dalle modalità tecniche di intervento dell’analista o da eventuali errori. Esistono infatti, per Fenichel, situazioni caotiche spontanee. Egli esprime il suo disaccordo riprendendo il modello geologico degli strati terrestri. E’ noto che la crosta terrestre si è strutturata attraverso sedimenti che si andarono depositando in strati e si sa anche che, a volte, questa disposizione viene alterata da movimenti tettonici; cioè cataclismi che ne scuotono la struttura. Rimanendo nel paragone, è un eccesso di ottimismo ritenere che gli strati della personalità, che si sono andati organizzando durante lo sviluppo, si presentino uno alla volta. Un trauma, o un particolare avvenimento successivo potrebbero modificare questi strati.
Parimenti, Fenichel critica l’eccessiva selezione del materiale prodotto dal paziente, che si verifica nella proposta di Reich; ciò perché è possibile che il materiale successivo dimostri che quello lasciato da parte risulta più pertinente. Questi, secondo Etchegoyen (1986, 444), erano gli stessi problemi che, in quel periodo tentava di risolvere la Klein con le sue idee sul punto di urgenza e sull’interpretazione profonda.
Fenichel, inoltre, non crede che si debbano ignorare i sogni che possono condurci a interpretazioni di contenuto, privilegiando sempre le interpretazioni di quelle resistenze che, nel lessico reichiano, vengono definite difese caratteriali. Infatti, anche se esistono alcune situazioni in cui l’interpretazione del contenuto dei sogni è controindicata, nulla più dell’attento e accurato esame dei suoi sogni ci può aiutare a comprendere meglio un paziente e le sue cosiddette difese caratteriali.
Nonostante la lunga conoscenza e la frequentazione con Reich, a cavallo degli anni venti e trenta, vi sono diverse nette divergenze con il pensiero del medesimo. In primo luogo, Fenichel discute il dosaggio dell’attacco a quella che Reich chiama corazza caratteriale. La continua interpretazione dei tratti del carattere potrebbe essere molto violenta e ferire il narcisismo del paziente, più di ogni altra misura tecnica. In effetti, il trattamento reichiano della “corazza caratteriale” è aggressivo e i termini stessi utilizzati da Reich appaiono, in tal senso, significativi: attacco, dissoluzione, liquidazione e così via.
In secondo luogo Fenichel, andando al cuore del metodo di Reich, afferma che l’analisi stessa della corazza caratteriale può trasformarsi in una resistenza. Questo dipende dal modo in cui tale analisi può essere vissuta dal paziente. Per esempio, se il paziente sente che l’analista sta cercando di rompere, concretamente, la sua organizzazione narcisistica, può configurarsi un transfert negativo.
In ciò, Fenichel riprende alcune osservazioni, proposte fin dal 1928, attinenti le personalità ossessive e compulsive. Peraltro, secondo la McWilliams (1994, p.308), tale descrizione dei processi difensivi e dei processi adattativi nelle personalità ossessive e compulsive resta fondamentale e insuperata. Tra i tipi di organizzazione del carattere, nella personalità ossessiva, per Fenichel (1928) la difesa prevalente è l’isolamento. Nelle situazioni compulsive è l’annullamento. Chi vive entrambe le situazioni utilizza contemporaneamente le due difese. Ai livelli più elevati di funzionamento, in genere, non viene impiegato l’isolamento nelle sue forme estreme, ma sono preferite versioni più mature di separazione dell’affetto dal pensiero, come la razionalizzazione, la moralizzazione, o l’intellettualizzazione. Infine, questo gruppo clinico ricorre massicciamente alla formazione reattiva. In modo meno specifico, ma in aggiunta ai meccanismi precedenti, le persone ossessive a tutti i livelli evolutivi utilizzano anche lo spostamento, specialmente nella rabbia, in circostanze nelle quali, spostandola dalla sua fonte originale su un bersaglio “legittimo”, possono ammettere tale sentimento senza provare vergogna.
Queste concezioni cliniche di Otto Fenichel occupano un notevole spazio nella lunga tradizione psicoanalitica, relativa al carattere, iniziata con Wilhelm Reich e proseguita con più autori, fin verso la metà del ventesimo secolo, quando il carattere viene riconsiderato nel contesto della psicologia dell’Io (McWilliams, 1994, 68). E’ un passo ulteriore rispetto alla classica teoria pulsionale. Per quest’ultima si tenta di comprendere la personalità in base al concetto di fissazione. Ovvero ci si chiede, in questa prospettiva, a quale fase evolutiva precoce è rimasto bloccato il paziente.
Fu proprio Reich (1933) ad indicare la prima differenziazione di rilevanza clinica fra “nevrosi sintomatica” e “nevrosi del carattere”. In seguito, con lo sviluppo della psicologia dell’Io, si concepì il carattere come espressione di particolari stili difensivi. Ci si chiedeva, quindi, quali potevano essere i modi tipici di una persona per evitare l’angoscia. In effetti, questa seconda modalità non era in diretto conflitto con la prima; offriva una diversa serie di idee e metafore per riferirsi alla personalità e aggiungeva ai concetti delle teoria pulsionale alcuni assunti su come ciascuno di noi sviluppa particolari modelli adattativi e difensivi.
Nell’Analisi del carattere (1933), Wilhelm Reich tentò di applicare la teoria pulsionale alla diagnosi della personalità. Il linguaggio di quel libro è arcaico per la maggior parte degli studiosi contemporanei, ma vi si trovano intuizioni affascinanti sulle varie tipologie di carattere. Secondo la McWilliams (1994, 65), l’antica distinzione reichiana fra chi ha una specifica nevrosi e chi ha un carattere permeato da modelli nevrotici continua ad essere attuale e permane implicitamente nel DSM. In quest’ultimo, le condizioni definite “disturbo” corrisponderebbero a quelle che gli analisti indicano appunto come nevrosi, mentre il “disturbo di personalità” riecheggerebbe il vecchio concetto di carattere nevrotico. Il capitolo intitolato “Squilibri di carattere” nel classico Trattato di psicoanalisi delle Nevrosi e delle Psicosi (1945) costituisce una dotta esegesi delle differenze tra sintomo nevrotico e carattere nevrotico.
Tornando alla dimensione economica e dinamica, per Fenichel (1935), le prime riflessioni sul carattere, sia quelle di Reich, sia quelle del citato Kaiser, si ricollegavano, in maniera troppo meccanica, all’indicazione di principio di Freud, secondo cui il lavoro dell’analista consiste nel rimuovere le resistenze.
Seguendo, in modo estremo, questa direttiva non si dovrebbe fare altro che interpretare le resistenze e se l’interpretazione della resistenza è corretta, il rimosso apparirà spontaneamente, senza bisogno che noi lo richiamiamo; cioè che lo evochiamo e lo indichiamo. In questa prospettiva estremizzata, le stesse interpretazioni di contenuto hanno solo una funzione collaterale e, se funzionano, è perché contemporaneamente hanno avuto la capacità di richiamare l’attenzione del paziente sulle resistenze e di correggerle. In sostanza, non viene ammesso che una idea anticipatoria possa essere funzionante, in senso freudiano, che possa cioè avere lo stesso effetto di una indicazione data da un professore di istologia a uno studente che sta per vedere un preparato al microscopio. In tal senso, un impulso rimosso non trova spazio nel sistema preconscio; quindi nessuna indicazione può aiutare il soggetto nella ricerca di qualcosa che non si trova in uno spazio per lui raggiungibile. Questa posizione estrema suppone che il sistema inconscio sia impermeabile, che non esista una possibilità di accesso all’impulso, in nessun modo. L’unica cosa che possiamo fare, è lasciare che esso appaia, quando le condizioni dinamiche lo permettono.
Fenichel non condivide questa idea e in tempi relativamente recenti, Kernberg (1984, 137), esaminando i disturbi gravi della personalità, si è schierato completamente a favore della prospettiva che egli ha indicato, affermando: “La regola generale dell’interpretazione enunciata da Fenichel (1941) – procedere dalla superficie per inoltrarsi sempre più in profondità – è certamente valida per i pazienti al limite e risulta utile se noi dapprima partecipiamo al paziente le nostre osservazioni, stimolandolo a integrarle a un livello superiore a quello immediatamente osservabile, per procedere a un’interpretazione che va al di là della sua consapevolezza, soltanto quando è evidente che egli non può riuscirvi da solo. Inoltre, ogni volta che la nostra interpretazione si spinge al di là della sua consapevolezza della situazione di traslazione, essa deve includere i motivi della sua incapacità di acquisire consapevolezza”.
In effetti Fenichel, fin dal 1935, sostiene che le stesse interpretazioni di contenuto non indicano l’impulso inconscio, ma il suo derivato preconscio. In ciò riallacciandosi a Freud (1915) quando afferma che l’impulso inconscio produce formazioni sostitutive, usando idee preconsce alle quali si associa, per emergere così nella coscienza.
Questa indicazione che porta a operare con il concetto di derivato e non semplicemente di contenuto, è secondo Etchegoyen (1986, 446), tra i più importanti e attuali contributi di Fenichel alla clinica. In effetti l’introduzione di questo concetto contribuisce a chiarire un tema che è ancor oggi oggetto di riflessione; ovvero la differenza tra rimozione primaria e rimozione secondaria.
Nella rimozione primaria, o originaria, la rappresentazione ideativa della pulsione non entra nella coscienza, a causa di un controinvestimento e questa prima forma di rimozione costituisce il nucleo inconscio che agisce come polo di attrazione nei confronti degli elementi da rimuovere. Ciò spiega anche perché Freud parla frequentemente dell’inconscio come del rimosso. Nella rimozione secondaria, che è la rimozione propriamente detta, vengono colpiti i derivati psichici di ciò che è rimosso, oppure quei processi di pensiero che, pur avendo una qualsiasi altra origine, sono incorsi in una relazione associativa, sempre con ciò che è rimosso. Qui, secondo Freud (1915, 65) si verificano contemporaneamente, sia un controinvestimento, sia una sottrazione di investimento e, nella prospettiva economica, proprio ciò che è sottratto alla rappresentazione viene usato come controinvestimento.
Come si è illustrato, Fenichel sviluppa, nel tempo, una complessa posizione rispetto ai meccanismi della rimozione e propone una clinica psicoanalitica, in questo senso, attiva e capace di operare col concetto di derivato. Anzi, il vero scopo delle interpretazioni dovrebbero essere i derivati. Inoltre, poiché la difesa dell’Io è attiva contro i derivati del rimosso e il destino dei derivati varia secondo l’interazione dinamico-economica delle forze in ciascun momento, essi a volte arriveranno alla coscienza, altre volte saranno nuovamente rimossi.
Per questi motivi, egli afferma che il trattamento analitico può essere descritto anche come una educazione dell’Io, volta fargli tollerare derivati sempre meno deformati.
Come si può constatare, nonostante il tempo trascorso, molte idee di Fenichel legate alla prospettiva economica e dinamica sono ancor oggi accettate e sostenute da autorevoli personaggi del movimento psicoanalitico. Tuttavia nel concludere, ci piace ricordarlo anche per quella sua vena emotiva e romantica che, a detta di chi lo conobbe, non lo abbandonò mai e che traspare in molte parti della sua opera. Come scrisse nel Trattato di psicoanalisi (Fenichel, 1945, 19): “Non è affatto vero che nel trattare degli eventi di vita degli uomini, si debba scegliere tra la viva descrizione intuitiva dell’artista e la distaccata astrazione dello scienziato che consideri tutto dal punto di vista quantitativo. Non è necessario e non è permesso rinunciare al proprio sentimento, quando si studia il sentimento”.
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