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L’universo e Shakespeare
Per Shakespeare, l’intero universo va considerato come un grande teatro di specchi, che può essere guardato da prospettive differenti, come un insieme di geroglifici da decifrare in cui tutto è simbolico e allegorico. Anche oggi la speranza di possedere una immagine realistica del cosmo è una illusione fanciullesca; tuttavia ha allettato, in ogni tempo, filosofi e scienziati.
“L’universo in cui viviamo, o in cui crediamo di vivere, è soprattutto un mondo creato da noi”. Così rifletteva Edward Harrison (1985), cosmologo e professore nell’università del Massachusetts. Il solo sollievo possibile è il medesimo nutrito, tra gli altri, da Socrate e dai mistici medioevali i quali, pur essendo depositari di molte conoscenze, ebbero il buonsenso di ammettere che vivevano “nelle nubi del non-sapere”. D’altra parte, nessun essere umano può divenire membro di una società, se non è dotato di idee generali sul mondo circostante. Ogni cosmologia è, prima di tutto, una costruzione culturale e antropologica. Inizialmente l’universo magico degli uomini dell’età della pietra, dove ogni cosa possedeva una anima; poi l’universo mitico del mondo mesopotamico ed egiziano, in cui gli Dei tiranneggiavano il cosmo. Solo nella cultura greca apparve una scienza organizzata, con le cosmologie di Pitagora e Aristotele. Seguirono capitoli dedicati a universi colmi di saggezza devota, come quello della filosofia scolastica medioevale, o di follia, come il mondo delle streghe nel tardo Medioevo.
Anche nell’immagine contemporanea dell’universo, non è possibile mantenere un ragionevole standard di oggettività. Ogni nuova osservazione è difficile da interpretare, perché la sua collocazione dipende da una teoria assolutamente incompleta. Sembrerebbe, insomma, che il cosmo, come scrisse Shakespeare nel Romeo e Giulietta, sia una invenzione fantastica “Fatta di nulla oltre alla vana fantasia / che è di sostanza sottile come l’aria /e più incostante del vento”. Ma gli universi non vanno e vengono come i fiori di primavera. Esiste una logica nel mutamento delle maschere cosmologiche. “I mondi (interno ed esterno) della nostra esperienza – ha scritto Harrison – fanno indubbiamente parte dell’Universo, ma il modo in cui descriviamo o spieghiamo tali esperienze non è altro che un universo proprio di una certa società e di un certo periodo storico. Ogni universo inoltre cambia, evolve sotto la spinta, operante dall’interno, di visioni del mondo diverse, rivoluzionarie, e sotto quella esterna dovuta ad altri universi con esso competitivi”.
Tuttavia Harrison non arriva ad accettare quel ragionamento estremo per cui, se è difficile essere oggettivi, tanto vale rinunciare a ogni oggettività; né gradisce chi afferma che, non esistendo un metodo costituito da regole sicure, si debba abbandonare ogni ricerca metodologica. L’universo, un po’ come il cervello, costituisce, in gran parte, una terra incognita, secondo l’antica classificazione della cartografia. Nonostante ciò è reale e le immagini o maschere cosmologiche che noi elaboriamo sono, in fondo, manifestazioni dell’universo che, attraverso l’umanità, pensa se stesso. Magari si pensa con la mente e le parole di Shakespeare e, avrebbe allora detto Cartesio, se l’universo pensa, deve esistere.