
Montaggio e percezione cinematografica in Rudolf Arnheim e Sergej M. Ejzenstejn – 2007
Eidos cinema e psyche, 7
TEORIE A CONFRONTO:
montaggio e percezione cinematografica in Rudolf Arnheim e Sergej M. Ejzenstejn
di Alberto Angelini
Le concezioni di Sergej M. Ejenstejn e Rudolf Arnheim sul montaggio e sulla percezione cinematografica rappresentano due filoni di pensiero distinti, espressi nell’ambito di più vaste proposte sul significato artistico ed intellettuale del cinema. Sono riflessioni che, per la loro attualità, testimoniano la sensibilità psicologica di due autori. Arnheim, da una parte, grande saggista capace di una complessiva proposta estetica e filosofica sul cinema, Ejzenstejn dall’altra, magnifico regista, profondamente attratto dalla scienza psicologica. Nello specifico, Ejzenstejn fu amico e interlocutore del grande psicologo sovietico Lev Semenovic Vygotskij, detto il “Mozart” della psicologia, nonché di Alexander R. Luria, il fondatore della neuropsicologia contemporanea; inoltre mantenne corrispondenza con esponenti della psicoanalisi del suo tempo, come Wilhelm Reich.
Il dibattito contemporaneo sul montaggio e sulla regia, che, oltre alla cinematografia, ha coinvolto la televisione e diversi fenomeni collegati all’avvento dei computer e delle reti, continua ad avere molti riferimenti con dei concetti proposti dai due autori nella prima metà del secolo scorso.
Rudolf Arnheim, psicologo e critico d’arte, è tra i primi e più forti sostenitori di una autonoma capacità espressiva del cinema in senso estetico; con ciò conferendo al mezzo la dignità di arte. La sua indagine, esposta nel saggio Film come arte (1933-1938) collega la percezione cinematografica ai principi della psicologia della Gestalt, che egli definisce una tendenza, negli studi sulla percezione, proveniente dalla filosofia di Immanuel Kant.
Del resto, nella stessa pagina, Arnheim ricorda di essere stato allievo di due capiscuola della Gestalt: Max Wertheimer e Wolfgang Köhler. La teoria della Gestalt, che tanta parte ha avuto nella studio della psicologia del cinema, sostiene che, nel percepire qualcosa, gli individui sono direttamente consapevoli di una struttura o, una forma, che viene appresa come un tutto organizzato e non è, semplicemente, la somma delle sue parti. Uno degli esempi solitamente addotti in tal senso riguarda la musica, e si basa sulla constatazione che una melodia viene percepita come un tutto organizzato e non come una serie di note separate. Ciò implica, da parte del soggetto, il possesso di un meccanismo capace di integrare, in una sola configurazione, la costellazione dei singoli stimoli.
Le analogie con la percezione cinematografica, risultato complessivo dello scorrere dei singoli fotogrammi, sono evidenti.
Alla base della proposta di Arnheim è l’idea che la mente possieda la capacità di “costruire kantianamente” la percezione cinematografica. Lo stesso fenomeno definito “carattere o illusione di realtà”, ovvero la tendenza dello spettatore a vivere il cinema come reale, inserendosi nello spazio offerto dallo schermo, è un attributo dovuto alle doti percettive dello spettatore. Il pensiero stesso dell’individuo durante l’esperienza cinematografica, si andrebbe strutturando, per caratteristiche proprie della psiche, in modo da produrre tale illusione di realtà. Di conseguenza, le caratteristiche e i miglioramenti della tecnica cinematografica sono secondari, percettivamente, rispetto alla potenza costruttiva della mente umana. Addirittura, secondo Arnheim, l’avvento del sonoro e del colore sullo schermo, nella prima metà del secolo scorso, non aggiunsero qualità essenziali al carattere di realtà già posseduto dal cinema muto, nella sua espressione matura.
Poco tempo prima, la scuola psicologica della Gestalt, sorta in Germania, aveva elaborato il concetto di “pregnanza”; ovvero la tendenza della percezione, in questo caso cinematografica, ad attribuire un significato completo e organizzato a stimoli parziali o perfino ambigui. Arnheim è convinto che la pregnanza di un film sia già altissima, nel cinema muto, in bianco e nero. Il compito del montaggio consiste nel promuovere e facilitare al massimo le potenti capacità percettive e costruttive della mente umana nella situazione cinematografica. Un eccesso di stimoli rallenta e ostacola il funzionamento della psiche. Il sonoro, in questa prospettiva, aveva distrutto il valore della mimica dell’attore, nel film muto.
Grande è l’importanza delle inquadrature, nei primissimi piani e nei dettagli. Secondo Arnheim questa possibilità di vedere “da vicino” il volto di un attore o le caratteristiche di un oggetto, differenzia percettivamente e artisticamente il cinema dal teatro; aumenta la potenza espressiva del primo rispetto al secondo. Inoltre, la possibilità, estranea al teatro, di offrire la visione del particolare, produce un nuovo stile di recitazione attento alle sfumature. Nel cinema, il gesto e l’azione prevalgono sulla parola.
D’altra parte, l’antitecnicismo di Arnheim è tutto a favore del teatro, che unico, a suo giudizio, può raggiungere il massimo livello di realismo artistico.
La convinzione, apparentemente ragionevole, che il teatro sia più “reale” del cinema, proprio per la sua fisica concretezza, è stata contestata da molti. Valga, tra tutti, l’esempio del semiologo Cristian Metz, che ha distinto, sul piano mentale, il “carattere di realtà” del cinema dalla realtà stessa. Quest’ultima, psicologicamente e fisicamente è un limite che, nello spettacolo teatrale, comunica la finzione. Il palcoscenico, con la sua struttura materiale di cose e di corpi recitanti, produce una “rappresentazione teatrale” (rappresenta = sta per ).
Lo schermo della sala, con le sue ombre colorate, quasi prive di fisicità, offre una “presentazione cinematografica”.
Il teatro, che è vero, sembra finto; il cinema, che è finto, sembra vero.
Arnheim ha, invece, il merito di essere stato tra i primi a sostenere, ne Il pensiero visivo (1969), la natura fondamentalmente visiva del pensiero stesso.
In ciò egli si accosta alla posizione che, in ambito psicoanalitico, hanno preso personalità come David Rapaport o Cesare Musatti, collocando il pensiero per immagini in una posizione antecedente allo sviluppo di quello concettuale e più vicino alle sorgenti pulsionali dell’individuo.
Sergej M. Ejzenstejn, già negli anni venti, aveva collocato il linguaggio cinematografico nell’ambito del pensiero infantile e primitivo. Nella raccolta Forma e tecnica del film e lezioni di regia (1964), si constata l’adesione di Ejzenstejn alla teoria del “monologo interiore” del grande psicologo russo Lev S. Vygotskij. Il loro era un rapporto d’amicizia; il dattiloscritto autografo di Vygotskij Psicologia dell’arte (1925), con correzioni a mano dell’autore è stato scoperto, non troppi anni fa, su uno scaffale nella casa di Ejzenstzjn.
In questa prospettiva, il “linguaggio esteriore”, la parola, non coincide con il significato interno del pensiero, il “linguaggio interiore”. La coscienza umana ha una estensione più ampia del suono delle parole. Il linguaggio interiore è più frammentario e abbreviato di quello verbale; funziona per immagini e sensazioni e si avvicina ai processi mentale utilizzati dai bambini e dai popoli (come si diceva allora) “primitivi”.
Ejzenstejn sostiene che tutte le espressioni artistiche rappresentano una regressione psichica artificiale verso forme di pensiero evolutivamente ed antropologicamente primitive. Nel cinema, in particolare, il linguaggio interiore per azioni ed immagini, che si contrappone alla parola, corrisponde alla sceneggiatura del film. Nella Teoria generale del montaggio, Ejzenstejn giunge addirittura ad accostare la percezione cinematografica alla regressione ipnotica. In un brano che rivela la sua sapienza psicologica, descrive l’ipnosi come una sospensione temporanea del livelli superiori della coscienza:
“Anatomicamente, si tratta del comportamento della mente in condizioni di esclusione dei lobi frontali del cervello. Ontogeneticamente, si tratta del comportamento che precede lo sviluppo di questi lobi, all’inizio del loro funzionamento (il pensiero infantile). Filogeneticamente, si tratta del comportamento che precede l’elaborazione storica del pensiero logico-formale, che ha richiesto un’evoluzione piuttosto lunga e travagliata di questi organi della mente. Patologicamente, si tratta di una regressione permanente, prolungata o sporadica, causata da una malattia o da un trauma subito durante gli stadi iniziali dello sviluppo mentale. Il tratto distintivo di questo processo nell’ambito dell’arte sarà sempre la sua relatività, o meglio il suo agire contemporaneamente su due piani: sia la regressione fino al livello in cui sono possibili i fenomeni propri di questo stadio, sia la conservazione del livello proprio della coscienza.”
Questa regressione psicologica è presente, per il grande regista, anche nel pensiero religioso, magico e nelle alterazioni prodotte dalle droghe.
Riguardo, specificamente al montaggio, la scelta delle inquadrature deve avere un corrispettivo nel linguaggio interiore. Vanno riservati i dettagli e i primi piani a quelle parti del mondo reale che vengono percepite come i più importanti, o cariche simbolicamente dei più ampi significati. Si possono anche giustificare delle inquadrature che tendano alla deformazione delle proporzioni, o alla caricatura, purchè propongano immagini coerenti con questo pensiero arcaico ed emotivo.
Anche Ejzenstejn, come Arnheim, ha mostrato scarso interesse per il colore e la stereoscopia e ha manifestato varie perplessità nei confronti dello stesso sonoro cinematografico. Infatti, una sceneggiatura facilitata dalla presenza della parola potrebbe a suo parere minacciare la raffinatezza del montaggio acquisita dal film muto.
Tutto il montaggio, nella sua proposta, deve servire a sviluppare un’idea, attraverso conflitti e inquadrature profondamente differenti, in virtù di un principio definito “drammatico”. In ciò polemizzò con Pudovkin che considerava il montaggio una specie di imbuto per spingere progressivamente e senza eccessive scosse lo spettatore verso un’idea dominante, secondo un principio detto “epico”.
Sostanzialmente Ejzenstejn ha perseguito l’espressione in termini cinematografici dei conflitti psicologici. Conflitti che ha voluto esprimere, anche, con un montaggio conflittuale. Non a caso Vygotskij ha posto l’attenzione sul “contrasto dei sentimenti”. Questa strategia estetica è indispensabile per raggiungere il massimo coinvolgimento dello spettatore. È interessante osservare che tale coinvolgimento cinematografico viene individuato non solo a livello emotivo, ma anche sul piano motorio e gestuale. In ciò, il regista russo anticipa alcuni studi, elaborati in tempi più recenti, sulla cosiddetta “induzione posturo-motrice” dello spettatore al cinema.
A differenza di Arnheim, che considera l’organicità del cinema come un risultato prodotto dalla psiche umana e il film un messaggio dalla mente dell’autore a quella dello spettatore, Ekzenstejn ritiene che l’omogeneità del film, rispettando esigenze sia esterne, sia psicologiche, debba essere ottenuta attraverso la sofisticata disciplina del montaggio. Esso, secondo le regole del linguaggio interiore, inserisce lo spettatore nell’effetto di realtà cinematografica. Come ha scritto in Teoria generale del montaggio: “Il principio del cinema non è altro che una riproduzione in termini di pellicola, metraggio, inquadratura e ritmo di proiezione di un processo; indispensabile e profondamente originario che caratterizza in generale la coscienza fin dai suoi primi passi nell’assimilazione della realtà”.
La realtà di cui egli parla è quella storica e culturale. Gli apparati psichici del pensiero e del linguaggio, compreso quello cinematografico, vanno inseriti nel vasto mare delle dinamiche della società e della cultura. Ciò spiega perché, cambiando il mondo sociale, cambiano il linguaggio ed il pensiero stesso. Nel cinema, la tecnica del montaggio cambia e si evolve, analogamente al modo in cui, nella pittura, si sono susseguiti, nel corso della sua storia, stili rappresentativi diversi. Per gli stimoli provenienti dal mondo della televisione, della pubblicità e delle tecnologie informatiche dobbiamo aspettarci che il montaggio e la concezione stessa dell’immagine filmica subiscano progressivamente delle variazioni. Del resto Ejzenstejn ha scritto: “Definire la natura del montaggio equivale a risolvere il problema specifico del cinema”. Contano i sentimenti e il cinema li esprime con le immagini, in una forma pre–verbale.
Anch’essi però si rendono concreti associandosi alla realtà storica. Mentre per Arnheim la mente umana predomina su tutto, per Ejzenstejn nessuna emozione può collocarsi al di fuori della storia.
Il dibattito contemporaneo sul cinema ruota ancora intorno a questi concetti.
Da: “Psicologia del cinema”, Liguori Editore, Napoli, 1992.