![](https://www.albertoangelini.it/wp-content/uploads/2022/06/mulholland.jpg)
Mulholland Drive (2002)
di David Lynch
In: Eidos: Cinema e Psyche, 50/2022
Alberto Angelini
In un noto saggio, pubblicato nel 1919, Sigmund Freud propone la definizione di un concetto centrale della psicoanalisi: il “perturbante” (das unheimliche). «Non c’è dubbio — scrive Freud — che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso strettamente definibile, tanto che quasi senza eccezione coincide con ciò che è genericamente angoscioso».
Per descrivere il perturbante Freud utilizza uno dei Racconti fantastici di Ernst T.A. Hoffmann, intitolato L’uomo della sabbia (1816), a proposito del quale già lo studioso E. Jentsch aveva formulato la categoria del perturbante. Quest’ultimo però riteneva che l’effetto dipendesse dal dubbio che un essere apparentemente animato fosse veramente vivo o, inversamente, che un oggetto senza vita potesse per caso animarsi. Per Freud, invece, non basta che ci si trovi in presenza di qualcosa che ci appaia ignoto e dunque non familiare; per perturbante dobbiamo intendere ciò che, pur appartenendo alla sfera del familiare, ci si presenta inaspettatamente come sconosciuto e quindi spaventoso. Si tratta dunque di un termine che “sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere col suo contrario”.
In Mulholland Drive (2002) di David Lynch sono al lavoro entrambe le accezioni di perturbante alle quali si è accennato. Da un lato troviamo la condizione di incertezza intellettuale descritta da Jentsch quando emerge il dubbio se una persona esista in carne ed ossa o sia invece “una figura di cera, un pupazzo o un automa”. D’altra parte il film, soprattutto in alcuni passaggi, evoca quella freudiana e timorosa angoscia, prossima all’orrore, che scaturisce dall’inaspettata scoperta di aspetti estranei e sconosciuti in persone e ambienti, precedentemente, prossimi e familiari.
Per contrasto, la vicenda descritta nel film è ambientata in uno spazio conosciutissimo; anzi nel principale e più noto luogo di produzione cinematografica del mondo: Hollywood. La celebre insegna si staglia, frequentemente, nelle inquadrature. Altresì evidente è la professione di diversi personaggi, come registi e attori e pur note sono le molte citazioni esplicite o indirette, per immagini o nei dialoghi, a opere appartenenti alla grande epopea del cinema. Viene comunicato che la “storia” a cui assistiamo, gli avvenimenti e i personaggi che in essa compaiono, la sua intensa carica perturbante, la sua intrinseca enigmaticità, si risolvono integralmente nella dimensione del cinema; si tratta di modalità che esaltano una sorta di autopoiesi del cinema, come tale. Ciò non suggerisce affatto che gli avvenimenti che si manifestano siano illusori. Linch, sottolineando che quella “storia” è cinema, non vuole classificare il medesimo come “copia” o “riflesso” del mondo. Al contrario e coerentemente con l’ispirazione dell’opera, viene revocata ogni distizione fra realtà e rappresentazione. Ambiguamente, è resa impossibile l’individuazione di un livello privilegiato che funzioni da “base reale” contrapposta a ciò che è “cinema”. Inoltre, allo spettatore viene anche disdetta la successione cronologica dei fatti. Nel film, quel che è presentato come “successivo”, si rivela poi essere “anteriore”, e viceversa. Lynch abolisce ogni linearità nello svolgimento della vicenda, conferendole un andamento circolare, per cui risulta impossibile stabilire con certezza quale sia l’”inizio” e quale la “fine”. L’alterazione nella direzionalità del tempo, che si riscontra in molte patologie psichiche, è causa non solo di turbamento, ma interferisce con le modalità tipiche della costruzione di un racconto, potenziando l’effetto perturbante.
Quest’opera, di complessità e incombenza davvero straordinari, esalta un elemento caratteristico e inconfondibile del cinema di Lynch; ovvero il ricorso agli enigmi. A differenza, però, di opere precedenti, come Wild at Heart (1990) o la serie televisiva Twin Peaks (1990/1991), qui non si tratta di un esercizio “enigmistico” in qualche modo fine a sé stesso, ma di qualcosa che è invece pienamente omogeneo alle modalità di costruzione della vicenda descritta. Linch rilancia la valenza originaria dell’enigma, come tema tradizionalmente ricorrente, fin dalla cultura greca. Il perturbante gioco degli enigmi destabilizza l’ambito del reale, che vorremmo controllare tramite lo strumento della conoscenza. Il velo enigmatico dell’indecifrabilità assume la medesima funzione svolta nell’ambito della tragedia greca. L’esempio più significativo è sicuramente l’Edipo re, dove all’inizio il protagonista è introdotto come “semplicemente un uomo”, caratterizzato dalla capacità di “risolvere enigmi”. Come nel testo di Sofocle, anche nel film di Lynch la risoluzione o meno di un enigma è la discriminante che determina il destino specifico del protagonista. Nella tragedia, l’incapacità di risolvere l’enigma costituito dai propri veri natali, condanna Edipo al luttuoso fato che lo attende; nel film il successo rispetto all’enigma determina i “mutamenti di sorte” dei personaggi dell’opera.
Il film non offre punti di approdo; lo spettatore non può mai stabilire se ciò che “appare” sia “reale” e se lo “svelamento” sia concluso; ma mai il perturbante è perseguito e raggiunto tramite l’esibizione di dettagli raccapriccianti. Esso è del tutto sganciato da ciò che è “visibile” e riferito piuttosto al profondo inconscio, nella comprensione della netta differenza tra lo “spaventoso” e il “raccapricciante”. Lynch riecheggia la Poetica di Aristotele. Se il fine specifico della tragedia è l’induzione della “pietà” e del “terrore”, non bisogna confondere ciò che è in grado di ingenerare terrore, con ciò che è semplicemente “ripugnante”, o addirittura “mostruoso”. Mentre infatti, nel primo caso, l’“effetto” scaturisce dalla struttura narrativa del racconto, nel secondo caso esso proviene da qualcosa che è legato esclusivamente ad artifici spettacolari e a espedienti riguardanti la “visione”. Ciò che veramente evoca terrore attiene allo specifico stato d’animo suscitato dal susseguirsi degli avvenimenti costituenti il racconto e non dall’esibizione di scene raccapriccianti. Come accade nel cinema di Alfred Hitchcock, dov’è bandito ogni dettaglio relativo all’atrocità, anche in Mulholland Drive, Lynch non esibisce, ma occulta; non dichiara, ma accenna; non dimostra, ma offre enigmi e sembra deridere ogni presunta certezza, con l’espansione dei significati e dell’ambiguità. L’unica risposta offerta compare nella sequenza conclusiva. Nel luogo classico della rappresentazione; in un teatro, dove molti e diversi personaggi si muovono e parlano contemporaneamente, ciascuno in modo autonomo rispetto agli altri. Non è possibile individuare una comprensibile trama, in questo confuso assieparsi di parole e azioni ma, d’improvviso nell’oscurità, si staglia una figura, in alto, nella posizione in cui, nella tradizione drammaturgica, era collocato il Deus ex machina. La vicenda si conclude con l’unica e potente parola ch’egli pronuncia: “Silenzio”. Non è un discorso né una spiegazione ma, anche qui, viene evocato un pensiero filosofico. Si tratta dell’ultima asserzione del Tractatus logico-philosophicus (1921) di Ludwig Wittgenstein, una fra le più ardue e determinanti opere della filosofia del Novecento. Il libro si conclude nello stesso modo in cui il film di Lynch giunge alla fine: “Intorno a ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.