Otto Fenichel: idee fra due continenti

Otto Fenichel: idee fra due continenti

Il periodo europeo

L’articolo di A. Richards (2016)evidenzia una parte, ancora meritevole di approfondimento, dell’incontro storico fra il marxismo e la psicoanalisi che coinvolse, nella prima metà del novecento, molti ilustri esponenti del movimento psicoanalitico, sia in Europa, sia in America. Cronologicamente fu l’Europa il primo teatro in cui le teorie freudiane e la filosofia marxista vennero a contatto. In quell’ambito l’incontro fu proficuo e proseguì, in alcune declinazioni, anche nella seconda metà del secolo scorso. Diversa fu la situazione negli Stati Uniti. Richards mostra come esistessero degli adepti della psicoanalisi di estrazione marxista anche negli USA, ma come queste presenze, fin dall’inizio esigue, si fossero poi estinte.

Nel contesto europeo, numerosi psicoanalisti della seconda generazione furono dichiaratamente marxisti e lavorarono intellettualmente per integrare il marxismo con il patrimonio concettuale psicoanalitico. Le persecuzioni razziali e le vicende belliche spinsero molti di loro a emigrare negli Stati Uniti. Qui essi, sul piano pubblico, abbandonarono gli aspetti ideologici collegati al marxismo e si concentrarono, progressivamente, su questioni teoriche e tecniche appartenenti prevalentemente alla teoria psicoanalitica e alla sua clinica.

La vicenda di Otto Fenichel rappresenta un esempio di questa situazione. I suoi primi studi sono poco conosciuti e la sua opera, storicamente, si evidenzia proprio per i lavori di carattere clinico e teorico pubblicati durante la sua permanenza negli Stati Uniti, dal 1938 fino alla morte, nel 1946. Il Trattato di Psicoanalisi (Fenichel, 1945) riuscì universalmente a conquistare il rango di un modello della più esemplare informazione psicoanalitica. Secondo R. Fine, autore di una classica storia della psicoanalisi, esso «compendia le più importanti conoscenze in campo psicoanalitico raggiunte fino a quel momento» (Fine, 1979, 82). Analoga, favorevole sorte hanno avuto altre opere attinenti al medesimo genere come i Problemi di tecnica psicoanalitica (1941).

Assolutamente esigua, invece, risulta la rilevanza acquisita dai lavori prodotti in Europa, nel periodo che precedette la sua emigrazione negli Stati Uniti. Anche la letteratura storiografica risulta, oggettivamente, scarsa rispetto a questa parte della vita scientifica di Fenichel, che si svolse mentre l’Europa era in crisi e Hitler saliva al potere. Per spiegare questa carenza, va ricordato che buona parte del periodo europeo di Fenichel appare, direttamente o indirettamente, influenzata dal pensiero marxista (Angelini, 1979, 1979a). Questo retroterra ideologico, poi svanito, ma così evidente in quella prima fase di attività, non poteva certo essere recepito positivamente dal rigido mondo psicoanalitico statunitense. Poiché la rimozione funziona anche all’interno delle piccole e grandi istituzioni umane, questi primi interessi furono semplicemente trascurati e, poco o niente, citati. Negli anni europei apparvero molti dei suoi lavori di argomento storico e culturale. Fenichel voleva impiegare la psicoanalisi per meglio capire i grandi eventi sociali che sconvolgevano il mondo e le singole coscienze.

Richards cita Fenichel indicandolo come autore, nel 1934, di un saggio “sui legami tra psicoanalisi, socialismo e marxismo”, nonché promotore dei “contatti fra gli analisti marxisti sparsi nel Paese”. Questo tributo di Fenichel al marxismo, intitolato La psicoanalisi come nucleo di una futura psicologia materialistico dialettica riecheggia idee espresse precedentemente sia da Wilhelm Reich, sia dallo psicologo russo Aleksandr R. Lurija, sostenitore della psicoanalisi, in gioventù.

Negli anni roventi che seguirono la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa, la psicoanalisi e il pensiero marxista si affermarono, fortemente, in Europa. Questo ciclone teorico, proveniva dal vivace mondo intellettuale della neonata Repubblica Socialista Sovietica, nel periodo culturalmente brillante e dinamico che precorse il grigio tracollo nel regime stalinista.

Luria, nel 1928, pubblicò un lavoro di carattere metodologico, “Die moderne Psychologie und der dialektische Materialismus”, in una rivista molto conosciuta e diffusa fra gli intellettuali della sinistra tedesca e austriaca: Unter dem banner des Marxismus. Tale articolo riprendeva diversi concetti di un precedente lavoro, squisitamente metodologico, “La psicoanalisi come sistema di psicologia monista” (1925), pubblicato nell’antologia Psichologija i Marksizm, curata da K. N. Kornilov (1925), allora direttore dell’Istituto di Psicologia dell’università di Mosca. La rivista Unter dem banner des Marxismus che aveva anche un’edizione russa; ospitò, nel 1929, il lavoro di W. Reich “Materialismo dialettico e psicoanalisi”. Tale articolo, che riecheggia la tematica avanzata da Luria, scatenò, nel 1930, una accesa e polemica replica del teorico del regime I. Sapir (1929-1930), sempre sulla rivista sopracitata.

Il lavoro di Fenichel La psicoanalisi come nucleo di una futura psicologia materialistico dialettica (1934) affronta l’argomento metodologico.

L’approccio che egli qui propone vuole fondarsi sulla biologia. Nella sua prospettiva, le esigenze biologiche umane, ovvero i bisogni, sono alla base sia dei processi psichici sia degli stessi processi di produzione economica. Scrive infatti: «Le basi materialistiche che pongono in movimento i processi di produzione sono giustamente i bisogni umani; e questi bisogni (benché derivanti da una fonte somatica, come diremo) sono di natura psichica» (Fenichel, 1934, 124).

La necessità di risolvere lo iato che verrebbe a crearsi tra mondo biolo­gico e mondo psichico è affrontata, in chiave empirica, tramite la categoria dell’esperienza, la quale deve essere analizzata in una prospettiva che ne consideri, “sulla base delle scienze naturali” tutta la complessità.

La stessa dimensione psicoanalitica viene ricondotta alla dimensione dell’esperienza; ma quest’ultima, che pure non può scollegarsi dal criterio fisico della biologia individuale, viene elevata al nobile rango di fenomeno storico. Con linguaggio moderno, qui vorrebbe passare dalla biologia alla biografia. Nell’ottica assunta da Fenichel, questo è un passaggio necessario, se si vuole proporre la psicoanalisi come nucleo di una psicologia, in grado di riempire il vuoto che appare tra momento sociale e momento individuale della struttura esistente.

Sia Fenichel, sia Reich, in quel periodo, visitarono l’Unione Sovietica, incontrando numerosi esponenti della psicologia e del mondo scientifico russo. Fenichel descrisse il suo viaggio, su Imago, nel 1931.

Era diffusa l’idea che la psicoanalisi fosse un rivoluzionario strumento per comprndere il mondo e per alleviare il disagio sociale. Scrive Richards che lo stesso «Freud, nel 1918 aveva maturato questa convinzione, quando al Quinto congresso internazionale di psicoanalisi di Budapest affermò che “il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più né meno come ha diritto già ora all’intervento chirurgico” (Freud, 1918, p. 27; cit. in: Richards, 2013, p. 824)». Nel periodo in cui Freud teneva la sua conferenza, veniva instaurata la Repubblica Sovietica d’Ungheria, che affidava a Sandor Ferenczi una cat­tedra presso l’Università di Budapest. Storicamente, fu il primo spazio accademico conquistato dal movimento psicoanalitico, anche se l’incarico durò quanto il governo stesso, circa cento giorni. In seguito, nel 1920 a Berlino, nell’ambito dell’Istituto di Psicoanalisi berlinese, allora il maggior centro di formazione europeo, fu fondato un “Policlinico psicoanalitico” che aveva appunto lo scopo di offrire assistenza psicoanalitica alle classi meno agiate. Per Richards, «Molti esponenti della cosiddetta “sinistra freudiana”…credevano che la psicoanalisi dovesse essere accessibile a tutti, si contavano dodici cliniche gratuite sparse in tutta Europa, un risultato notevole. Gli analisti di sinistra della generazione tra le due guerre, almeno nelle loro patrie europee, condividevano uno spirito che Helene Deutsch ha definito “rivoluzionario” (Danto, 2005), che si manifestava in questa pacata sovversione delle aspettative capitaliste» (Richards, 2020, 5-6). Molti promotori di queste iniziative per l’assistenza gratuita, fra cui Fenichel, erano marxisti. L’Istituto berlinese era diretto da due pionieri della psicoanalisi: Max Eitingon ed Ernst Simmel. Tra i partecipanti vi erano Karl Abraham, Franz Alexander, Paul Federn, Edith Jacobson, Karen Horney e Melanine Klein. Con le idee della Klein e dei suoi seguaci, Fenichel non avrebbe poi avuto buoni rapporti (Cfr. Reichmayr, 2002). Una forte influenza esercitavano alcuni analisti vicini al partito socialdemocratico e a quello comunista, come Helene Deutsch, Wilhelm e Annie Reich, Erich Fromm e Siegfried Bernfeld.

Nonostante l’impronta umanitaria e impegnata proposta da Eitingon e Simmel, l’Istituto berlinese, con la sua organizzazione ge­rarchica e il suo formalismo, scoraggiava, negli analisti più giovani, il con­fronto aperto, sul piano sociale e politico. Fu così che Fenichel, pur aven­do incombenze ufficiali nella struttura, volle organizzare e condurre un seminario al di fuori dell’Istituto. Il gruppo divenne noto come “Seminario dei Figli” (Kinderseminar) e raccolse, in parti­colare, gli analisti più giovani e politicamente impegnati. Gli incontri proseguirono finché fu in vita l’Istituto o, più precisamen­te, finché la maggior parte degli analisti non fu messa in fuga dal nazismo. Il gruppo del “Seminario del figli” si riuniva nelle abitazioni private dei partecipanti. Il numero dei presenti variava da cinque a venti. Si ebbero 168 incontri. Durante l’ultima riunione, tenuta nell’ottobre del 1933,pri­ma che il gruppo si disperdesse, Fenichel tenne una relazione intitolata Psicoanalisi, socialismo e compiti per il futuro. In quel periodo, il lavoro di Fenichel testimonia un forte impegno sociale; numerose furono le conferenze sulle implicazio­ni politiche della psicoanalisi. Tuttavia, sia per l’approssimarsi dell’avvento del nazismo, sia per i vincoli formali derivanti dalla sua frequentazione dell’Istituto Psicoanalitico Berlinese egli tentò di mantenere un atteggiamento pubblico e politico senza eccessi. Di ciò lo avrebbe molto rimproverato l’amico Wilhelm Reich; un personaggio che, di fronte agli eccessi, non arretrava.

Sul piano teorico, per tutta la vita, Fenichel s’impegnò per mantenere un difficile equilibrio nei concetti. Da una parte ribadiva l’importanza dell’istinto e della sessualità, come avrebbe anche fatto negli USA, contro il culturalismo estremo dei neofreudiani. Contemporaneamente, come psicoanalista impegnato socialmente, denunciava il riduzionismo biologico e la miopia sociale della psicoanalisi ufficiale. È un equilibrio di concetti raro, dopo Freud, nella storia della psicoanalisi e della scienza stessa. Si tratta, per quanto non teorizzato, di un atteggiamento scientifico filosoficamente “dialettico”, ricollegabile a quel filone della dialettica che ha la sua origine in Hegel. È altresì la medesima posizione di metodo che era emersa in Russia negli scritti, attinenti alla psicoanalisi, di L. Vygotskij (2002) e soprattutto di A. Luria (Cfr. Angelini 2019, 20-31). Fenichel avverte l’inderogabile esigenza di svincolare il pensiero psicoanalitico dalla meccanica separazione tra un soggettivismo magari biologizzante e uno storicismo mutuato dal marxismo a lui contemporaneo. Nella storia della psicoanalisi, questa sua posizione è, poco o nulla, valorizzata, ma rappresenta la cerniera fra il patrimonio concettuale dei pensatori filopsicoanalitici sovietici e alcune importanti idee presenti nel movimento psicoanalitico occidentale.

Ancora sotto l’effetto di una “immersione” nel marxismo, Fenichel tocca, da psicoanalista, il delicato problema del rapporto fra ciò che i marxisti di allora definivano fattore soggettivo e la storia umana.Per la psicoanalisi, l’utilità del suo contributo consiste soprattutto nell’aver evitato una interazione meccanicista tra i due poli. Egli indica una sintesi superiore; individua una qualità diversa che, da queste due entità, si forma nella mente di una persona. Scrisse: «Le condizioni economiche non influenzano soltanto direttamente l’individuo, ma anche indirettamente, attraverso un mutamento della sua struttura psichica» (Fenichel, 1934, 131). Lo sforzo di Fenichel, allora influenzato dal marxismo, tendeva ad evitare una assolutizzazione del determinismo economico, nelle vicende storiche, che avrebbe trascurato l’individuo e il soggetto. Contemporaneamente non voleva cadere nella trappola sempre aperta, sul versante della psicoanalisi: ovvero lo psicoanalismo metastorico. Probabilmente questa è una delle radici della sempiterna fedeltà di Fenichel al pensiero freudiano. Freud, a differenza di molti suoi epigoni e successori non può certo essere definito, com’è avvenuto nel passato, un fautore dello psicoanalismo (Rollins, 1978); come non si merita storiche critiche, anche autorevoli (Sulloway, 1979), che vorrebbero collocarlo nel contesto biologista.

Fenichel rimase sempre fedele all’originale pensiero freudiano, perché ne seppe percepire l’aspirazione all’equilibrio tra spinte interne ed esterne. Freud, pur senza avvalersi di concetti dialettici, dimostrò di rispettare, assieme alla dimensione istintuale, la profonda influenza dei fattori familiari e, in particolare, con la nozione di Super-Io, anche dei fattori culturali. Forse l’unica situazione in cui Fenichel non condivide le posizioni freudiane è rappresentata dallla sua presa di posizione nel saggio Una critica dell’istinto di morte (1935).

Sul piano storico, il concetto di istinto di morte è stato tra i più dibattuti, dalla formulazione freudiana in Al di là del principio del piacere (1920) fino al periodo contemporaneo.

Risalendo alle origini di questo concetto, va ricordato che, fin dal 1908, Alfred Adler aveva proposto, durante una riunione della Società Psicoanalitica Viennese, il concetto di pulsione aggressiva, nettamente rifiutato a quel tempo da Freud. Nel 1911, nell’ambito di una analoga riunione, l’idea di una vera e propria pulsione di morte era stata avanzata dalla psicoanalista russa Sabi­na Spielrein, cui Freud, nel 1920, riconobbe il merito di aver anticipato questo pensiero.

La Spielrein era, culturalmente, erede di una lunga tradizione filosofica russa, espressa dal nichilismo, vero precursore del concetto di istinto di morte. Sull’onda delle idee nichiliste, a cavallo tra l’ottocento e il novecento, autori come lo psi­chiatra Tokarskij e il fisiologo Mecnikov avevano ri­valutato l’antica idea stoica della morte (Angelini, 2002). Fenichel mantenne, per tutta la vita, una posizione nettamente critica riguardo alla possibilità di una spinta primaria verso la morte. Considerava una simile idea contraddittoria rispetto alla teoria freudiana delle pulsioni (Cfr. Greenson, 1966, 379) e, riaffermando l’indivisibilità dell’aggressività dalla libido, riteneva sostanzialmente di rispettare le fondamentali indicazioni freudiane.  L’amore e l’odio hanno una origine comune e ciò è confermato dalla capacità migratoria delle cariche energetiche. «Se delle quantità di energia – scrive Fenichel – possono essere trasposte dagli istinti sessuali agli istinti dell’Io e viceversa, allora così sembra a noi, gli istinti sessuali e quelli dell’Io devono derivare da una origine comune. Non deve essa contenere sia l’Eros che la distruttività?» (Fenichel, 1935, 189, 190). Il conflitto ne­vrotico non nasce tra l’istinto autodistruttivo e autoconservativo, bensì tra l’istinto e le difese attivate dalle pressioni del mondo esterno. L’individuo secondo Fenichel, non tende al nirvana, ma manifesta un desiderio di sti­moli che viene frustrato dalla realtà. Questa “pressione storica” del mon­do, sugli istinti individuali ha, fondamentalmente, una origine sociale e culturale.

Nel 1935, quando scrisse Una critica dell’istinto di morte, Fenichel era ancora molto vicino al pensiero marxista e la possibilità di una spinta ag­gressiva e distruttiva, intrinseca psicologicamente all’individuo, contrastava con la determinazione storica ed economica attribuita dal marxismo a tutti iconflitti umani, da quelli individuali alle guerre tra i popoli.

In effetti, è possibile individuare, a partire da Marx, un filone di pensiero relativo alle problematiche psicologiche individuali.

Come è noto, Marx aveva chiaramente manifestato la convinzione che i rapporti economici dominanti e le conseguenti relazioni sociali entro cui si svolge l’esistenza umana fossero antecedenti alla formazione della psiche individuale; che esistesse, cioè un primato della dinamica storico-sociale sulla psiche. Questo concetto è espresso in diverse opere in for­ma, più o meno, sistematica. Appare fin dai Manoscritti economico-filosofi­ci del 1844 e riemerge, lucidamente, nella Ideologia Tedesca del 1846, dove tutto ciò che è mentale viene ricondotto al processo materiale della vita, da cui prende origine. Di conseguenza, la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica non possiedono una autonomia in senso filosofico. È la vita concreta che genera la coscienza e non l’inverso.

L’elenco dei concetti di rilevanza psicologica espressi da Marx ed Engels e, in seguito, ripresi da Lenin, potrebbe proseguire oltre; tuttavia, in questo contesto è sufficiente ribadire la primarietà del dato storico ed eco­nomico su quello psicologico. Il grande tema dell’aggressività umana, nel­la prospettiva marxista, andava valutato come prodotto dei conflitti economici e sociali. Ammettere l’esistenza di un istinto di morte, distruttivo e fondato biologicamente, avrebbe cancellato ogni possibile ottimismo storico. Questa idea promuoveva il pessimismo estremo di Thomas Hobbs, convinto della umana cattiveria, contro l’ottimismo di Jean Jacques Rousseau, gradito ai sovietici, che credevano di poter creare lo uomo nuovo con i giusti processi educativi, nel socialismo. È un atteggiamento che ebbe delle analogie nell’ambiente psicoanalitico, di sinistra. «L’influenza di Marx- scrive Richards – può essere individuata anche nell’ottimismo terapeutico così sorprendentemente caratteristico dei membri del “collettivo”, che credevano che l’analisi potesse cambiare l’individuo nel modo in cui Marx riteneva che il comunismo potesse cambiare il mondo. Essi nutrivano aspettative prodigiose nei confronti della psicoanalisi che superavano di gran lunga le ambizioni pessimistiche di Freud e dei suoi seguaci più pragmatici. Non ammisero mai che vi fossero alcuni limiti, che altri analisti accettavano come realistici» (2020, 12).

Fenichel, pur evitando una aperta contraddizione rispetto alla visione freudiana dell’aggressività, si orientò nel senso espresso da Marx. Egli fece più volte riferimento a Wilhelm Reich (1929) che aveva manifestato analoghe convinzioni.Fenichel contraddisse l’ipotesi freudiana dell’istinto di morte (Angelini, 1979, 1979a) perché, come accennato, essa avrebbe spostato la causa della sofferenza umana, dalla repressione sociale esterna, a una necessità biologica interna.  Questa posizione non era stata nemmeno presa in esame dagli psicoanalisti sovietici, perchè avrebbe eliminato il fattore sociale dall’eziologia delle nevrosi.

Purtroppo in Russia, dal 1931 al 1936, una serie di risoluzioni del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’URSS portò alla scomparsa della psicoanalisi, assieme a patrimoni scientifici come, per esempio, la teoria della relatività e i primi abbozzi della biologia contemporanea (Angelini 1988). In quel contesto furono bandite anche le idee di Vygotskij.

Fenichel, in un paese avviato verso il nazismo, non percepiva i rischi so­ciali espressi dal modello sovietico. Anzi, proprio in quegli anni, andava maturando il suo massimo tributo al marxismo, che avrebbe pubblicato nel 1934 con il titolo La psicoanalisi come nucleo di una futura psicologia materialistico dialettica. Un significativo passaggio di questo lavoro riecheggia concetti provenienti dalla psicoanalisi sovietica e, in particolare, dalla possibilità di una storicizzazione di alcuni aspetti interpretativi della psiche, in senso psicoanalitico. Sono idee presenti in Vygotskij e Lurija, nella prima fase del loro lavoro scientifico. «Analizzare un uomo dal punto di vista psicoanalitico – scrive Fenichel –  significa analizzarlo dal punto di vista storico-genetico, cioè stabilire come l’interazione di influssi ambientali e dati biologici abbia prodotto, a poco a poco, la struttura esistente. Tale indagine constata l’immensa preponderanza degli eventi della prima infanzia nella formazione di questa struttura. In questo senso la psicoanalisi può essere definita una scienza storica» (Fenichel, 1934, 135-136).

Le riflessioni di Fenichel e Rei­ch, sull’istinto di morte e sulla dimensione storica della psicoanalisi, facevano parte del grande dibattito sul “fattore soggettivo” nei processi storici, sviluppatosi allora nel marxismo europeo, (Cfr. Angelini, 2019, 52, 53). Diversi esponenti politici e filosofici del marxismo occidentale avevano iniziato a riflettere sul problema del ruolo dell’individuo nella storia: il fattore soggettivo. Valgano come esempi György Lukàcs (1923) che, pur senza addentrarsi nella dimensione soggettiva, ragionava sulla centralità del “soggetto sociale” e Karl Korsch (1923) che salvaguardava la “sfera ideale”, dandole una certa “autonomia dialettica” rispetto ai meccanismi storici. Le idee psicoanalitiche avrebbero potuto dare un contributo. A differenza dei teorici sovietici, che progressivamente si andavano schierando contro la psicoanalisi, personalità di rilievo, come il politico socialista austriaco Max Adler (1930), si confrontavano con le teorie psicoanalitiche cercando di avvalersene per meglio comprendere il rapporto fra l’individuo e le “forze storiche”.

Sono interventi che testimoniano la ricchezza di un ambiente intellettuale e sociale che, nonostante il progressivo diniego dei sovietici, vedeva nella psicoanalisi una presenza forte e culturalmente significativa. Fenichel, nella sua fase di accostamento al marxismo, si colloca idealmente in questo ambito, ma approfondisce il tema, andando oltre l’aspetto esclusivamente filosofico e cercando di raggiungere, tramite la psicoanalisi, la dimensione psichica soggettiva. Contemporaneamente, in quegli anni berlinesi, Fenichel era conosciuto come chiaro sistematizzatore delle conoscenze psicoanalitiche, essenzialmente in virtù di opere cliniche. Esse restavano, apparentemente, estranee all’impegno politico, pur non mancando di offrire spunti di riflessione. Nel 1931 aveva dato alle stampe Perversionen, Psychosen, Charakterstorungen e Hysterien und Zwangsneurosen. Questi scritti furono pubblicati, in inglese, con il titolo: Outline of Clinical Psychoanalisys (1932-1934). Nel primo dei due testi, venivano presi in considerazione i parametri storici delle nevrosi, respingendo la biologizzazione come possibile criterio di metodo. Ai temi storici e sociali, avrebbe in seguito dedicato gran spazio nei Rundbriefe, le “lettere circolari” spedite ai suoi colleghi durante l’esilio. I Rundbriefe erano ap­punto delle lettere battute a macchina, in più copie con la carta carbone, che Fenichel, per tutta la vita, scrisse e spedì affettuosamente ai suoi amici e colleghi del primitivo gruppo che si era raccolto, attorno a lui, a Berlino. Sono state reperite, negli archivi, 119 di queste circolari, spedite dal 1934 al 1945 (Cfr. Reichmayr e Mühlleitner, 1998). In diverse circostanze, nei Rundbriefe, appaiono considerazionisulla situazione della psicoanalisi in Italia. In una comunicazione del 23 aprile 1936, esprimeva purtroppo la sua perplessità rispetto al riconoscimento, avvenuto nell’ultimo Congresso, del gruppo italiano, come Società Psicoanalitica affiliata. A suo parere mancava ancora una piena maturità scientifica. Tuttavia, in altri scritti, esaminava con interesse il lavoro di Edoardo Weiss e, a sorpresa, elogiava il libro di Ignazio Silone La scuola dei dittatori affermando che “Silone, con mia grande soddisfazione, conosce abbastanza bene la psicoanalisi” (Reichmayr e Mühlleitner, 2001, 41).

La corrispondenza dei Rundbriefe, ovvero delle lettere circolari,intercorsa in quegli anni tra Feni­chel e i suoi colleghi, testimonia la sua massima concentrazione riguardo all­e problematiche sociali. In più circostanze si inserì nel dibattito scientifi­co che coinvolgeva personaggi storici della psicoanalisi. Evidenziò i rischi del riduzionismo psicologico insito nelle idee di René Laforgue e Géza Rohéim. Entrambi, anche se con sfumature differenti presupponevano che i prodotti culturali e storici potessero essere spiegati nei termini della psicologia individuale. Proprio per questo, Fenichel riteneva l’antropologia psicoanalitica di Rohéim difettosa nell’elaborazione teorica, per quanto correlata da ricerche sul campo. Contemporaneamente, nella corrispondenza riguar­dante Michael Balint, volle prendere le distanze dal riduzionismo cultura­le. Balint era un discepolo ungherese di Ferenczi, inizialmente incline ver­so il biologismo; ma dopo la morte del suo maestro era precipitato, secondoFenichel in un “estremo opposto” (Cfr. Jacoby, 1983, 94).

Anche in questa occasione, in cui Fenichel preferì esprimersi informalmente attraverso i Rundbriefe, il suo pensiero manifesta il tentativo di collegare, in un solo edificio concettuale, biologia e storia. Re­censì il libro di Abram Kardiner (1939), L’individuo e la sua società evi­denziandone la eccessiva lontananza dalla teoria pulsionale.In seguito, si inte­ressò delle opere di Margaret Mead e Karen Horney, cercando di mante­nere, sempre, il medesimo, difficile, equilibrio teorico e clinico. Nel recen­sire il lavoro della Horney, (1937) La personalità nevrotica del nostro tempo, espresse pienamente i suoi timori riguardo al rischio di sottova­lutare il ruolo della sessualità. D’altra parte, secondo Fenichel, la Horney, dopo aver letto la recensione, ribadì che essi divergevano in modo radicale sulla teoria delle pulsioni, dichiarando: “Io la considero come qualcosa che deve essere superato” (Cfr. Jacoby, 1983, 97).

Fu con Erich Fromm che Fenichel ebbe la più ampia controversia intellettuale. Questo conflitto che, come si illustrerà, si sarebbe poi chiaramente esplicitato nel periodo americano, ebbe inizio in Europa.

Per diversi anni, Fromm aveva fatto parte dell’Istituto per la Ricerca Sociale, la cosiddetta Scuola di Francoforte, assieme a Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse. Nel 1935 Fromm pubblicò un articolo, sui fondamenti sociali della teo­ria psicoanalitica, nella rivista della Scuola di Francoforte: Die gesellenschaftliche bedinghteit der psychoanalytischen therapie. Il saggio di Fromm attaccava la posizione terapeutica di Freud tesa al non coinvol­gimento personale con il paziente. Si tratta di un argomento che attrae interesse e discussioni anche ai nostri giorni. L’atteggiamento analiticamente neutrale, per Fromm, era ideologicamente corretto e apparentemente aperto, ma mascherava, in realtà, una tendenza autoritaria. Si trattava di una questione già da tempo dibattuta, nell’ambito del movimento psicoanalitico internazionale. Primo protagonista storico di questo dibattito, intrapreso con Freud stesso, era stato Sandòr Ferenczi. Fromm lodava infatti Ferenczi, perché aveva avuto il corag­gio di favorire la presenza dell’affettività dentro il rapporto terapeutico. Freud restava, per Fromm, un liberale aristocratico del diciannovesimo secolo, corretto nel comportamento terapeutico, ma incapace di disporsi positivamente verso la felicità dei suoi pazienti.

Fenichel respinse le posizioni di Fromm e difese quelle freudiane, considerandole complessivamente più trasformative e radicali sia rispetto alle innovazioni proposte da Ferenczi, sia nei confronti delle idee di Fromm. Le critiche di Fenichel a Fromm, poi approfondite negli anni americani, iniziano nei Rundbriefe, quando asserisce come le obiezioni di Fromm ricordassero un errore metodologico di Reich, che rimproverava a Freud di “non essere comunista” (Cfr. Jacoby, 1983, 98). Ciò è anche un indizio del perché si fosse incrinata l’amicizia fra Reich e Fenichel. Quest’ultimo, comunque, difese sempre le posizioni freudiane come, complessivamente, più trasformativae e radicali delle innovazioni proposte da Ferenczi.

Nel 1938, Fenichel pubblicò il saggio Psicoanali­si e scienze sociali. In questo lavoro rielabora il suo pensiero politico e cerca di inserire il marxismo nel contesto culturale in cui esso si era manifestato. Fenichel sostiene, con sempli­cità, che la psicoanalisi e il marxismo non possono ignorarsi l’un l’altro e non possono essere ignorati. Viene difeso il punto di vista psicoanalitico come realtà autonoma, sul piano filosofico e scientifico. La psicoanalisi è una prospettiva dialetticamente collegata a valutazioni di ordine storico e sociale e alla dimensione biologica. Tutt’oggi, relativamente all’apparato psichico, l’atteggiamento “psicologista” o “socio­logista” sono presenti in ambito scientifico, ove non si scivoli nel riduzio­nismo biologico, quando si debbano valutare i complessi rap­porti tra individuo e società. Fenichel è antesignano di un più ade­guato e complesso modo di concepire il problema, che riecheggia la psicoanalisi russa. Un modo che, anche in epoca contemporanea, ha difficoltà a emergere con semplicità e fermezza.

Ha osservato Mühlleitner (2008, 278) che, per tutta la vita, «Fenichel fece tutto ciò che era in suo potere per rafforzare l’opposizione scientifica all’interno dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale». Nel periodo europeo, questo atteggiamento fu fortemente alimentato da una “aspirazione alla scientificità” proveniente dalla sua cultura marxista.

L’ultimo anno della sua permanenza in Europa, il 1938, fu un periodo politicamente difficile. L’annessione dell’Austria sarebbe avvenuta nel 1938, mentre all’orizzonte si profilavano il patto di Monaco e lo smembramento della Cecoslovacchia. Oltre che in Svizzera, Fenichel tenne conferenze in Francia, in Olanda e in Inghilterra. Le prospettive di vita e di lavoro, durante questo viaggio europeo, diminuivano continuamente. Infine egli prese la decisione di emigrare negli Stati Uniti. L’emigrazione costituiva l’atto finale di un itinerario che aveva visto, nell’ultimo periodo, la sua presenza, per qualche anno, a Praga. Questa presenza influì profondamente sulla psicoanalisi cecoslovacca che, allora, sitrovava nella sua fase formativa. Fenichel coordinò lì un piccolo gruppo di analisti, molto legati fra loro, provenienti da Vienna e Berlino, come Annie Reich, Steff Bornstein e Henry Lowenfeld. Tuttavia, nel 1938, la metà dei componenti del gruppo analitico aveva lasciato Praga, mentre 1’altra metà era sul piede di partenza. Nel 1939, solo Steff Bornstein, fra gli analisti anziani, era ancora a Praga e morì in quello stesso anno. Le dottoresse Otta Brief e Therese Bondy, che si erano associate al gruppo di Praga furono, in seguito, uccise nei campi di concentramento. Un solo analista, Theodor Dusužkov, sopravvisse all’occupazione tedesca.

Valutando, in una prospettiva generale, l’orientamento ideologico degli psicoanalisti europei di allora, ha scritto Richardson: «Anche un breve excursus mostra quanto moltissimi di loro si identificassero con la politica di sinistra. Sigmund e Anna Freud erano socialdemocratici, così come Bruno Bettelheim, Grete Bibring, Helene Deutsch, Paul Federn, Willi Hoffer, Karen Horney, il mio analista Henry Lowenfeld e sua moglie Yela, Annie Reich ed Ernst Simmel. Berta Bornstein, Frances Deri, Otto Fenichel, Erich Fromm e George Gero si definivano socialisti. Tra gli psicoanalisti dichiaratamente comunisti vi erano Anny Katan, Edith Jacobson, Edith Ludowik-Gyomroi, Edith Buxbaum, Marie Langer, Ludwig Jekels e Wilhelm Reich. Margarete Hilferding, la prima donna ammessa alla Società Psicoanalitica di Vienna, era sposata con l’eminente austromarxista Rudolf Hilferding» (Richards, 2020, 4). Per queste persone, in gran parte di origine ebraica, l’intera Europa, minacciata da una Germania nazista ed espansionista non era un luogo ove vivere pacificamente. Ricorda Richards che, tra il 1933 e il 1941, quaranta analisti europei emigrarono negli Stati Uniti.

Nella Rundbriefe del 25 giugno 1938, Fenichel diede il suo addio ai colleghi europei, scrivendo: «Il destino della psicoanalisi non dipende più dalla capacità che avremo noi, psicoanalisti naturalistici, di opporci a “deviazioni mistiche” all’interno della nostra scienza. I processi che si svolgono all’interno del cosiddetto “movimento psicoanalitico” ormai non hanno alcuna importanza. Il destino della psicoanalisi dipenderà, in generale, dal destino del mondo e della scienza dove, a ogni modo, si può ancora ammirare il principio della dialettica: essi [i nazisti, n.d.a.] devono distruggere la scienza perché intacca la sacralità delle loro ideologie, che devono restare assolutamente sacre. Allo stesso tempo essa [la scienza] si tiene ancorata al potere, ma con l’aiuto della tecnica, e non può esservi tecnica senza scienza. Speriamo che questa contraddizione possa un giorno creare loro serie difficoltà» (Reichmayr J., Mühlleitner E., 2001, 40). Poco tempo dopo, con sua moglie e suo figlio, lasciava Praga. La famiglia raggiunse, in volo, la Francia e a Le Havre si imbarcò sulla S.S. Manhattan, “il più grande piroscafo mai costruito in America”, affollato di ebrei dell’Europa Centrale che si riversavano negli Stati Uniti.

Dall’Europa all’America

Fin dal 1934, Simmel, già fondatore dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, si era trasferito in California, a Los Angeles. È opportuno ricordare che Simmel professava sia il socialismo, sia la psicoanalisi. Per un certo periodo «fu nominato, contemporaneamente, presidente dell’Associazione dei medici socialisti e della Società psicoanalitica tedesca» (Danto, 2005, 177). Nel 1927 aveva fondato il sanatorio Schloss Tegel, vicino a Berlino, che avrebbe funzionato da modello per la Menninger Clinic di Topeka, in Kansas.

Fenichel, nella prospettiva di emigrare, volendo ottenere le necessarie garanzie di lavoro e di sostegno, prese contatto proprio con Simmel e con il Gruppo di Studio Psicoanalitico californiano da lui presieduto. Generosamente, Ernst Simmel si adoperò per assicurare al collega un incarico didattico che gli avrebbe garantito una retribuzione mensile. Egli, in ciò, percorse un itinerario ben descritto da Richards, che vide molti degli psicoanalisti provenienti dall’Europa divenire didatti. La provenienza garantiva loro peso scientifico e prestigio personale, favorendone la trasformazione in “classe dirigente” nell’istituzione psicoanalitica. Tuttavia, non risulta che Fenichel abbia perseguito questo obiettivo di potere, nel periodo di tempo in cui visse negli USA. Ralph Greenson, che fu in analisi con Fenichel, lo descrive come “incorruttibile” e offre il profilo di una persona affettuosa «con un sorriso disarmante, un caldo interessamento e un’affabile schiettezza» (Greenson, 1966, 376). Ne emerge una figura certamente estranea alla sottomissione burocratica o gerarchica, in ambito istituzionale e, negli USA «fu spesso giudicato da moltissimi psicoanalisti a cui aveva mosso delle critiche come un uomo privo di tatto» (Ibidem, 380). Fenichel non cercò il consenso gerarchico, all’interno dell’Associazione Psicoanalitica Americana, ma dovette però difendersi, all’esterno, dalla diffidenza che la società statunitense manifestava verso tutto ciò che potesse collegarsi al socialismo e al marxismo.

Partendo dall’Europa, nel suo messaggio di congedo del 1938, egli si era dichiarato in disaccordo con chi, nella lotta all’estremismo nazista, si fosse accostato all’estremismo di sinistra. Ciò suggerisce che il suo forte avvicinamento politico e pratico al marxismo andasse subendo qualche trasformazione. Il retroterra ideologico marxista di Fenichel, evidente nella fase europea della sua attività, finì sotteso quand’egli si trasferì in America, in quanto non poteva essere recepito positivamente dalla rigida cultura del mondo psicoanalitico statunitense, lontana dal marxismo. In realtà, anche negli USA esistevano degli elementi vicini al pensiero marxista; ma erano in posizione minoritaria e temevano per la loro sicurezza professionale e sociale. Scrive Richards, citando Jacoby (1983), che della quarantina di psicoanalisti giunti in America, in quel periodo, «la maggior parte di loro sembrava aver gettato la politica nell’Oceano Atlantico durante la traversata. Una ragione furono sicuramente le grandi difficoltà di costruirsi una nuova vita dopo il trauma dell’immigrazione. Un’altra la minaccia ancor sempre presente era la deportazione, man mano che la politica statunitense virava progressivamente verso destra…Otto Fenichel, Martin Grotjahn, Erich Fromm e Wilhelm Reich furono solo alcuni degli analisti che, come sappiamo, vennero controllati dall’FBI; il passaporto di Joseph Wortis fu revocato perché era, o era stato, membro del Partito comunista. Il timore degli immigrati di rappresaglie per i loro trascorsi di sinistra non era irrazionale» (Richards, 2020, 8). La presssione culturale e sociologica del viscerale anticomunismo americano spinse gli psicoanalisti immigrati a defilarsi rispetto al dibattito ideologico. Richards sostiene che, alcuni di loro mantennero idee marxiste ma, paradossalmente, tra essi vi furono diversi personaggi che parteciparono in modo assai autoritario alla vita istituzionale dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Mutatis mutandis, accadeva nel piccolo, quel che era avvenuto nelle grandi e tragiche vicende rivoluzionarie ed era stato ben descritto da Wilhelm Reich (1932; 1933); ovvero che gli incendiari divenissero pompieri.

Anche Fenichel dovette attenuare le aperte prese di posizione ispirate al socialismo e alla filosofia marxista. Accentuò la sua produzione scientifica di carattere clinico, dedicandosi molto all’insegnamento. Restano, tuttavia, del suo periodo americano, prima della morte prematura, alcune importanti opere che testimoniano come la sua mente fosse sempre impegnata nel salvaguardare il valore sociale oltrechè scientifico della psicoanalisi.

Purtroppo, il severo mondo psicoanalitico americano, lontano da propensioni ideologiche, non dette spazio a questo patrimonio offerto da Fenichel. I meccanismi di rimozione funzionano, sia negli individui, sia nelle istituzioni e nei contesti sociali. I primi contributi europei di Fenichel, politicamente e ideologicamente impegnati furono, dopo la sua morte, semplicemente trascurati e poco citati. Veniva così accantonato e rimosso un periodo fecondo dell’impegno scientifico e sociale di un eccezionale pensatore. In quella prima fase erano apparsi i suoi massimi lavori di argomento metodologico, storico e culturale.

Sebbene la produzione scientifica statunitense di Fenichel sia, prevalentemente, di tipo clinico, si tratta comunque di una clinica ispirata al metodo scientifico della ricerca teorica e della verifica. Nella prospettiva del massimo rigore scientifico, Fenichel rimase sempre legato al primitivo pensiero freudiano, d’ispirazione positivista. Ciò vale anche per

Psicoanalisi del carattere, del 1941, dove pure riecheggiano alcune posizioni di Fenichel collegate al pensiero reichiano. Non si dimentichi che Fenichel e Reich furono amici per molti anni. La loro amicizia s’incrinò dopo il 1934. In quell’anno Reich riuscì a farsi espellere, contemporaneamente, sia dal Partito comunista tedesco, sia dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Per i comunisti era un borghese corrotto, che parlava di sesso, per gli psicoanalisti un pericoloso estremista politico. Ma non fu questo il motivo per cui Fenichel si allontanò dall’amico. Egli non condivise, sul piano del metodo, i criteri che avrebbero portato Reich a ipotizzare la energia orgonica. Il cosiddetto orgone reichiano concretizza il fantastico desiderio di attribuire, alla libido freudiana, una estensione e una divisibi­lità, in senso cartesiano; ovvero una quantità reale.

La Psicoanalisi del carattere (1941a) di Fenichel riecheggia, nel titolo stesso, Analisi del carattere (1933), scritto da Reich e, anche nei contenuti, troviamo dei concetti presenti in quell’opera. La natura essenzialmente divulgativa del testo dimostra come l’autore fosse sensibile all’esigenza di far conoscere la psicoanalisi anche in ambienti non specialistici. Quest’atteggiamento è, di per sé, una testimonianza dell’interesse di Fenichel per la dimensione sociale, anche se, nell’ambiente americano, le sue idee dovevano essere proposte con prudenza, per non incorrere in critiche a sfondo politico. A distanza di anni dall’abbandono dell’Europa e immerso nell’ambiente statunitense, certo più interessato alla clinica che alla sociologia e all’epistemologia, Fenichel non perse la sua visione d’insieme. Egli era sempre preoccupato di mantenere una prospettiva scientifica, riguardo alle fondamenta metodologiche della psicoanalisi. In Psicoanalisi del carattere (1941a) propone un tipico punto di vista economico e dinamico. In senso generale, la base economica si fonda sugli istinti; mentre l’aspetto dinamico riguarda, in primo luogo, la relazione fra gli istinti e il mondo esterno. Questo, sul piano del metodo, è ciò che aveva proposto anche Reich e, una ventina d’anni prima, generalizzando, avevano indicato anche gli psicoanalisti russi. Fenichel esordisce classicamente riproponendo l’idea che tutti i sintomi, ma anche i sogni, siano conseguenza di una repressione profonda delle soddisfazioni istintuali. Avanza poi un’asserzione fondamentale; ovvero che, in una prospettiva genetica, la dimensione inconscia assuma una importanza superiore, rispetto alle altre componenti della psiche, incluso l’Io. «La psicoanalisi – afferma – che per prima ha iniziato a studiare l’inconscio e gli istinti, può essere applicata a tutta la mente umana, purché dimostri che il conscio e i fenomeni non istintuali siano derivati dai fenomeni inconsci e istintuali» (Fenichel, 1941a, 224).  Queste poche righe sono in nuce un vero e proprio manifesto di quella che prenderà il nome di “Psicologia psicoanalitica”; ovvero di una concezione della psicologia che si sviluppa dallo studio dell’inconscio. Per Fenichel, seguendo una logica che avrebbe fatto la felicità di Occam, se non si complica l’indagine con variabili metafisiche o postulati arbitrari, «si presuppone che i fenomeni non istintuali possano essere spiegati come derivati dai fenomeni istintuali e che essi abbiano preso forma sotto l’influenza del mondo esterno» (Ibidem, 224). Il concetto di “mondo esterno” non è qui pienamente sviluppato, in senso storico e sociale, come avevano cercato di fare Reich e, soprattutto, gli psicoanalisti sovietici, alla luce del materialismo storico marxista; ma, sul piano filosofico, l’impostazione concettuale è la medesima. Fenichel entra nel merito delle “resistenze caratteriali” e riconosce l’esigenza di una “Psicologia del carattere”. Si addentra, alla sua personale maniera, in quel vasto territorio psicologico, teso primariamente a studiare la personalità umana che, in quegli anni, attraeva una fazione del movimento psicoanalitico, che avrebbe preso il nome di “Psicologia dell’Io”. Richards ricorda come la sinistra psicoanalitica statunitense, presente anche se totalmente minoritaria, guardasse con diffidenza alla Psicologia dell’Io, contestandole la sottovalutazione della dialettica nella psicodinamica psicoanalitica.

«L’influenza diretta di Marx si manifesta nel modo più evidente nell’insistenza del “collettivo” sulla centralità del conflitto. Per Arlow, Brenner e i loro colleghi, la psicodinamica era un processo in cui la tesi e l’antitesi dovevano portare alla sintesi o a formazioni di compromesso. Il parallelo con le filosofie dialettiche di Hegel e Marx è evidente. Questi teorici criticavano l’idea stessa di una “sfera dell’Io libera da conflitti” proposta da Hartmann e dagli psicologi dell’Io. Credo che la nota opposizione di Arlow e Brenner all’approccio adattivo di Hartmann fosse influenzata dalla loro convinzione marxista che la confrontazione fosse la forza trainante del cambiamento» (Richards, 202, 12).

Fenichel accosta il concetto di “personalità” alla nozione di “carattere” di reichiana provenienza. Ma, poiché Reich considerava il carattere come risultato e strumento di un processo difensivo, anche la personalità viene concepita come una organizzazione difensiva. Essa, a differenza del sintomo nevrotico, non determina sofferenza e, conseguentemente, non produce il desiderio di un cambiamento o, nei casi migliori, la consapevolezza dell’esigenza di una cura. L’Io, osserva Fenichel, dipende fondamentalmente dalla relazione che ha avuto col mondo circostante. Egli, però, comprende come questa affermazione, apparentemente ovvia, contenga un notevole spessore metodologico. Il “mondo esterno” consiste in molto più del semplice momento educativo familiare e scolastico. La morale comune, che si trasforma storicamente e gli stessi fenomeni nevrotici, o i danni prodotti nelle personalità criminali andrebbero considerati in questa prospettiva. Ma, soprattutto, «per poter comprendere appieno il concetto, tuttavia, bisognerebbe guardare ai cambiamenti sociali che hanno avuto luogo nella nostra cultura negli ultimi decenni» (Fenichel, 1941a, 226).

In questa fase è chiaramente espressa la piena comprensione, avuta da Fenichel, riguardo al ruolo fondamentale svolto dalla cultura e dalla società nella formazione delle funzioni psichiche della persona.

Il senso generale del discorso consiste nell’indicare la necessità di collegare tutti i fenomeni della “Psicologia dell’Io”, in questo caso il carattere, a cause non percepite, o meglio non consce, di tipo economico. I vari elementi psicologici, presenti nella dimensione psichica individuale, entrano in relazione dinamica col mondo esterno e fra loro. Non è necessario inserire altre variabili. Parafrasando Reich, Fenichel indica la “natura forzata e rigida” del carattere.

Con un paragone, degno di riflessione, accosta le follie e le brutalità della storia umana alle perversioni. Accettando quest’ultime, viene risparmiata la repressione. Il carattere è un atteggiamento difensivo costante, utilizzabile sia rispetto alle richieste del mondo esterno, sia riguardo ai contenuti istintuali. Tuttavia, storicamente, l’influenza del mondo esterno va considerata per prima. Fenichel considera il carattere come un “irrigidimento” costante, riecheggiando la “armatura caratteriale” reichiana e propone l’idea, proveniente dalla medesima fonte, che l’ansia venga legata dagli atteggiamenti difensivi caratteriali.

Nella seconda parte del lavoro, prima di esporre l’esperienza di due brevi casi clinici, Fenichel approfondisce il concetto più d’ogni altro legato all’attivazione dei meccanismi di difesa; ovvero la nozione di Super Io. Egli osserva come, inizialmente, il Super Io sia connesso, nel bambino, a una idea di pericolo proveniente dall’esterno. Questa percezione è inizialmente legata all’educazione familiare e alle possibili punizioni dei genitori. «A un certo punto, tuttavia – scrive Fenichel – arriva una fase in cui il bambino comincia a comportarsi come un ‘bravo bambino’ anche quando i genitori, che potrebbero punirlo, non sono presenti e potrebbero non venir mai a sapere del suo comportamento. La paura, allora, è stata trasformata in sentimento di colpa» (Fenichel, 1941a, 231). La funzione del Super-Io è sociale. Non vengono trasmesse solo regole di comportamento, da una generazione all’altra. Per Fenichel «Ciò che viene creato dalla trasformazione della paura in sentimenti di colpa è la stessa idea del bene e del male e il modo in cui questa idea viene considerata nella nostra società; è l’autorità che chiede obbedienza e promette protezione, in cambio dell’obbedienza» (Ibidem, 231). Va osservato, prescindendo dall’utilità sociale, che il Super Io è anche necessario, poiché permette di controllare l’ansia proveniente dall’esterno e rappresenta il superamento del bisogno di essere amati passivamente. Prescindendo dall’approfondire ulteriormente questo tema, quel che conta è l’importanza fondamentale del Super Io nella gestione degli istinti, dal punto di vista sociale. «Gli istinti – scrive Fenichel – sono interposti fra le istituzioni sociali e i cambiamenti della personalità. È chiaro che il carattere dell’individuo, che è il risultato di conflitti istintuali infantili, dipende dal contenuto e dall’intensità delle proibizioni e degli incoraggiamenti che i diversi istinti incontrano all’interno delle istituzioni della società. In realtà, varie culture producono varie tipologie di caratteri» (Fenichel, 1941a, 234). In senso lato, quest’ultimo, concetto evoca teoricamente e storicamente, le idee della psicoanalisi russa.

In questa prospettiva, la terapia dovrebbe consistere nella “rimobilitazione” dell’ansia che aveva provocato “irrigidimenti” caratteriali. «Il paziente impara a comprendere storicamente le ragioni per cui le difese sono state costrette a prendere una forma specifica e a capire ciò di cui aveva paura» (Ibidem, 235). L’analista, a sua volta, si trova di fronte al problema del transfert, o meglio del “transfert difensivo”. L’Io riproduce, con un complessivo atteggiamento caratteriale, le particolari forme di difesa, sviluppate in situazioni passate. A questo punto, scrive Fenichel concludendo la trattazione teorica, «C’è da chiedersi se esistano analisi che non siano ‘analisi del carattere’» (Ibidem, 235). Il lavoro si conclude con l’esposizione di due brevi casi clinici; ma il suo valore è prevalentemente metodologico, in quanto testimonia l’orientamento, filosoficamente realista e legato alla prospettiva scientifica, dell’autore.

Rispetto agli sviluppi teorici della psicoanalisi in campo sociale, uno dei massimi contributi di Fenichel, appartenenti al periodo americano, è rappresentato da una lunga recensione critica al libro, pubblicato da Erich Fromm, nel 1941, Fuga dalla libertà. L’articolo s’intitola, appunto, Osservazioni psicoanalitiche sul libro di Fromm Fuga dalla libertà (1944).

Riguardo al lavoro di Fromm, va osservato che è un’opera di stampo sociologico, dove l’autore realizza una transizione, mettendo in atto un allontanamento dalla psicoanalisi classica. Bisogna, comunque, premettere che la posizione teorica e storica di Fromm viene, in linea di massima, collocata nell’ambito dei cosiddetti neofreudiani; ovvero all’interno della “scuola culturalista” rappresentata, essenzialmente, da Harry Stack Sullivan, Karen Horney, Clara Thornpson, Abraham Kardiner e, nel settore antropologico, da Margaret Mead. Un illustre precursore di questo orientamento analitico è considerato Alfred Adler che, per primo, influenzato anche dal pensiero marxista, sottolineò la “socialità” dell’essere umano e la necessità di realizzare, anche terapeuticamente, un equilibrio ottimale tra le esigenze della comunità e quelle dell’individuo. Risultavano così poste in secondo piano le forze pulsionali. Per alcuni autori storici, Adler è considerato un precursore della Psicologia dell’Io (Jacoby, 1975, 56). In effetti, il punto di partenza della critica culturalista a Freud è la sottovalutazione che egli avrebbe dimostrato circa la incidenza dell’ambiente sociale, economico e culturale sul destino evolutivo dell’individuo. Anziché soffermarsi sulla dimensione sociale del conflitto tra individuo e ambiente, Freud avrebbe preso la via riduttivistica di una teoria biologico-pulsionale del soggetto, il cui destino viene, in pratica, determinato, nei primi anni di vita, da vicende legate allo sviluppo sessuale. Questo tema attraversa tutta la critica storico-sociologica a Freud. Anche Sartre tende a esprimersi in tal senso ne L’Essere e il nulla (1943). In questa prospettiva, il pensiero freudiano sarebbe, individualmente, determinista, facendo cadere l’accento sul passato e sulla costituzione biologico-istintuale del soggetto. Il culturalismo tenderebbe, invece, a spostare l’attenzione dal passato al presente, dalla natura alla cultura, dall’individuo alla relazione. Nella riflessione di Fromm trapela una duplice delusione: sia rispetto alla teoria marxista che, da sola, non sembra capace di interpretare la storia, sia nei confronti della psicoanalisi che, a suo parere, avrebbe perso la sua carica liberatrice. Egli considera le idee freudiane, pesantemente, influenzate dai concetti meccanicistici dell’epoca; anche se riconosce loro il merito di aver sintetizzato le due fondamentali componenti del pensiero occidentale: quella razionalista, di tradizione illuministica e quella romantica. In ultima analisi sarebbe la ragione che, nel momento stesso in cui si riconosce sovradeterminata da elementi extra-razionali, li controllerebbe e li dominerebbe, nel suo più potente apparato.

Fenichel osserva, correttamente, come la critica di Fromm a Freud si trasformi spesso in una semplificazione arbitraria del pensiero di quest’ultimo, riducendosi a polemica. D’altra parte, la sintesi freudomarxista propone un campo di studio unificato dei fenomeni individuali e sociali. Riecheggiano, in Fuga dalla libertà, alcune considerazioni presenti nei Manoscritti economico filosofici del 1844 di Marx. Si tenta una analisi sociopolitica, informata dalla psicologia, partendo dallo stato primitivo fino all’era moderna, con particolare attenzione alle epoche medioevali e rinascimentali. L’uomo è passato da una primitiva condizione di “unità cosmica” con la natura e da un limitato ambiente sociale, a uno stato intermedio, in cui era separato dalla natura, ma ancora integrato con la società. Nel mondo contemporaneo, questo processo, che tenderebbe a proporre la libertà, produce nell’individuo un isolamento sia dalla natura, sia dalla società. Ne risulta, per Fromm, la nevrosi che è un cattivo uso, o meglio, una fuga dalla libertà. L’individuo sente l’impulso a rifiutare la sempre maggiore libertà di cui potrebbe godere, per ritornare, regredendo, a una esistenza più sicura. Questa sicurezza è garantita da una condizione di dipendenza.

In questo lavoro, scritto mentre il nazismo era ancora al potere, Fromm sostiene che le ideologie autoritarie attirano la gente poiché sembrano offrire una possibilità di fuga, da una non tollerata condizione di libertà, verso un più rassicurante stato di dipendenza.

Questa condizione implica che la qualità dell’essere umano sia determinata da fattori culturali e sociali, piuttosto che da fattori biologici. Sarebbe, soprattutto, la paura della solitudine, che la Horney aveva descritto nei primi vissuti infantili, a spingere l’individuo a barattare la sua libertà con la dipendenza sociale. Fromm vorrebbe anche offrire una alternativa al criterio autoritario e regressivo utilizzato, socialmente, per riconquistare un senso di sicurezza. Propone quindi un umanesimo socialista, di sapore idealistico, in cui gli individui dovrebbero collaborare, tra loro, in uno spirito di reciproca comprensione. Il ruolo dell’istinto è contenuto, così come sono ridimensionate le specifiche manifestazioni della libido, come gli stadi psicosessuali dello sviluppo. L’angoscia e le varie forme di comportamento anomalo non derivano, in tale ottica, da basi istintuali, ma si sviluppano in collegamento con le esperienze dei rapporti sociali.

Negli anni seguenti Marcuse, in Eros e Civiltà (1955), contestò il culturalismo sostenendo che, con l’atteggaimento culturalista, la psicoanalisi freudiana viene ridotta a una ideologia. Purificando la dottrina psicoanalitica dall’egemonia della dinamica pulsionale, il culruralismo trasforma la psicoanalisi in Una “Filosofia dell’anima”. Secondo Marcuse, cancellando il disagio della civiltà come indice della disarmonia di fondo tra le esigenze della sessualità umana e quelle repressive della società, il culturalismo spegne il potere critico della psicoanalisi nei confronti dell’ordine delle cose esistente. Alla critica della società, subentra l’ipotesi del miglior adattamento possibile per il soggetto posto, addirittura, come meta del lavoro terapeutico.

Richards ricorda che «Kurt Eissler (1965), per esempio, si opponeva all’idea che la psicoanalisi dovesse promuovere l’adattamento. Era interessato a preservare l’afflato sovversivo della psicoanalisi per tutelare la libertà individuale. Secondo Eissler, la società valuta solo il comportamento e non si preoccupa delle motivazioni, e gli psicoanalisti non dovrebbero mai trasformarsi in burattini della società e accettare comportamenti superficiali come indici della realtà psichica» (Richards, 2020, 15).

Ritornando alla divergenza di opinioni tra Fenichel e Fromm, essa traeva origine, come si è scritto, da dibattiti sorti negli anni precedenti. Nel recensire Fuga dalla libertà, Fenichel si trovò di fronte a una difficoltà già sperimentata. Egli condivideva, in parte, l’attenzione posta da Fromm e dai neofreudiani, come Horney, Mead e Kardiner, sulle categorie sociali e storiche. Quest’ultimi, però, nella loro ansia di trasformare la psicoanalisi, ne avevano abbandonato lo spirito critico e gli aspetti attinenti alle qualità dell’inconscio e alla sessualità. Tali aspetti erano, invece, difesi dai freudiani classici. Otto Fenichel, che individuava una parte di verità in ciascuna posizione, finì per non essere ben accetto da entrambi i due schieramenti.

Nel dibattito, egli prese le distanze tanto dalla psicoanalisi conservatrice, quanto dai neofreudiani che sviluppavano l’orientamento culturalista. Fenichel voleva elaborare, in un unico corpus, le posizioni divergenti della psicoanalisi ufficiale e dei neofreudiani culturalisti. Riguardo a questo particolare orientamento teorico, egli condivideva, per molti versi, l’attenzione posta dai neofreudiani sulle cate­gorie sociali e storiche. Si rendeva però conto che essi, nella loro ansia di trasformare la psicoanalisi, ne avevano abbandonato lo spirito critico e gli aspetti peculiari, relativi alla sessualità e alle qualità dell’inconscio. Fenichel era consapevole che la pro­pria posizione, rispetto ai neofreudiani, richiedeva un orecchio teorico fi­nemente intonato.

La combinazione era difficile da realizzare, ma era quella che Fenichel aveva sempre proposto, fin dagli esordi del suo lavoro. Da una parte un solido aggancio alla realtà dei fe­nomeni istintuali e della sessualità. Dall’altra, una lucida critica al ridu­zionismo biologico e al disinteresse sociale della psicoanalisi ufficiale. Salu­tava quindi, nei neofreudiani, dei possibili alleati, ma criticava contem­poraneamente il loro revisionismo. Su questo punto era schierato con il cosiddetto conservatorismo psicoanalitico, con cui, per altro e paradossalmente, aveva poco in comune. Nella sua mente era presente il bisogno di una sintesi (Angelini, 2009, 53, 54).

Scrive Fenichel, in Osservazioni psicoanalitiche sul libro di Fromm Fuga dalla libertà (1944): «L’uomo è governato da determinati impulsi fondamentali biologici che non presentano affatto delle forme rigide ma che si formano e sviluppano a seconda delle esperienze di soddisfazione e di frustrazione avute, ovvero tramite le forze sociali. Il modo in cui e il come le forze sociali vadano a formare la mente individuale diventa comprensibile in dettaglio grazie alla conoscenza degli impulsi inconsci e della loro capacità di dislocarsi. Freud ha detto: l’uomo è un essere istintivo, spinto da forze innate. Fromm ha detto: l’uomo è innanzitutto un essere sociale. Non vi è contraddizione tra queste due affermazioni» Fenichel, 1944, 128). La recensione si conclude con un giudizio sintetico che esplicita il pensiero di Fenichel: «Il libro di Fromm può in generale venire considerato così come facciamo con gli scritti di Kardiner e della Horney. Costoro vogliono evitare e correggere gli errori cha la psicoanalisi ha ammesso di avere fatto, abbandonando del tutto la stessa psicoanalisi invece di farne una migliore applicazione» (Ibidem, 141).

L’ultimo scritto di Fenichel, pubblicato nel1946, con il tito­lo Alcune osservazioni sulla collocazione di Freud nella storia della scienza, è una preziosa riflessione di carattere storico e metodologico. In una meditata prospettiva sociale, il lavoro ricorda, nella prima parte, come la psicoanalisi possa rappresentare, per certe caratteristiche dell’inconscio che svela, una offesa narcisistica alla collettività. Contemporaneamente, la maggior parte del lavoro risulta dedicata a esaltare il valore scientificamente co­noscitivo del pensiero freudiano e la sua capacità di sostituire, con ragio­nevoli spiegazioni, fenomeni che precedentemente appartenevano al mondo magico e religioso.

Sono riflessioni, di metodo e di sostanza, che hanno un grande valore scientifico e che il pensiero psicoanalitico contemporaneo non sempre riesce a sostenere.

La vita e l’opera di Otto Fenichel, in Europa come in America, si caratterizzarono per vastità culturale, curiosità, coraggio intellettuale, rigore nella ricerca e nella clinica. Purtroppo, egli giunse negli USA quando era già in atto, in quel paese, un processo storico, interno alle istituzioni psicoanalitiche, che voleva trasformare la psicoanalisi da weltanschauung a solo strumento terapeutico. Scrive Richards: «Un tempo la psicoanalisi era una visione del mondo sovversiva. Combatteva l’autoinganno istituzionalizzato, e così facendo ci rendeva liberi di cercare un senso più vitale e promuovere una società più libera, oltre le convenzioni e le prescrizioni» (2020, 16).

Fenichel voleva fondare la psicoanalisi su basi metodologiche improntate alla razionalità e ispirate alla scientificità. Egli, già negli anni trenta, percepiva l’incombere, nel movimento psicoanalitico, di idee antirazionaliste e più in generale antilluministe, che trovano spazio anche ai giorni nostri. I meriti e i limiti dell’impegno di questo pensatore vanno valutati storicamente. Tuttavia i suoi contributi, al di là dell’indiscusso valore clinico, esprimono l’entusiasmo civile e morale di un uomo che, per una stagione della sua vita, credette generosamente di poter comprendere e migliorare la società anche con gli strumenti offerti dalla psicoanalisi.

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