Sergej Ejzenštejn, la Psicologia e la Psicoanalisi
(Pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane, vol. 54, n. 2, 2020)
Alberto Angelini**
Riassunto. Sergej M. Ejzenštejn si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Fu grande amico di Lev Vygotskij, fondatore della scuola storico-culturale, e di Aleksandr Lurija, capostipite della neuropsicologia, i quali nei primi anni 1920 furono vicini alla psicoanalisi, sostenendola in Russia e aderendo alla Società psicoanalitica di Mosca. Negli scritti di Ejzenštejn sul linguaggio cinematografico troviamo concetti psicologici di Vygotskij come l’“agglutinazione” e il “monologo interno”, presenti nella teoria del montaggio. Rispetto alla psicoanalisi, Ejzenštejn s’interessò alla regressione: il fruitore dell’arte, anche cinematografica, deve regredire e insieme attivare la parte più matura della psiche. Ejzenštejn fu amico di Hanns Sachs e conobbe Otto Rank, Sándor Ferenczi, Franz Alexander e Wilhelm Reich. Nel 1929 tenne una conferenza presso l’Istituto psicoanalitico di Berlino. In URSS e negli USA ebbe due brevi esperienze di terapia a orientamento psicoanalitico. [Parole chiave: Cinema sovietico; Marxismo e psicoanalisi; Cinema e psicoanalisi; Lev Vygotskij; Aleksandr Lurija]
Abstract. Sergej M. Ejzenštejn was very much involved with psychology and psychoanalysis. He was an important friend of Lev Vygotskij, founder of cultural-historical psychology, and of Aleksandr Lurija, father of modern neuropsychological assessment: both Vygotskij and Lurija in the early 1920s were among the supporters of psychoanalysis in Russia and members of the Moscow Psychoanalytic Society. In Ejzenštejn’s writings on film language we find psychological concepts of Vygotskij, such as “agglutination” and “internal speech”, that were present in the theory of film editing. As far as psychoanalysis is concerned, Ejzenštejn was very much interested in the concept of regression: the art lover, including the movie spectator, must regress and at the same time activate the most mature part of the psyche. Ejzenštejn was friend of Hanns Sachs and knew Otto Rank, Sándor Ferenczi, Franz Alexander, and Wilhelm Reich. In 1929 he gave a lecture at the Berlin Psychoanalytic Institute. In the USSR and in the USA he had two short experiences of psychoanalytic therapy. [Keywords: Soviet cinema; Marxism and psychoanalysis; Cinema and psychoanalysis; Lev Vygotskij; Aleksandr Lurija]
Sergej Michajlovič Ejzenštejn (1898-1948), regista russo tra i più noti personaggi nella storia del cinema della prima metà del Novecento, fu tra maggiori protagonisti del dibattito, a lui contemporaneo, relativo ai temi dell’arte e dell’estetica. Nell’ultima parte della vita, la vastità e la profondità delle sue concezioni si espressero globalmente nel lavoro rimasto incompiuto, Metod, pubblicato come raccolta nel 2002. Ejzenštejn inizialmente fu allievo di Meyerchol’d, ideatore della “biomeccanica”, disciplina in cui confluivano, tra l’altro, i temi della psicologia riflessologica di Pavlov e Bechterev. Ricorda Bordwell (1933) che «durante la stagione teatrale 1921-22 Ejzenštejn studiò nel laboratorio di Meyerchol’d, dal quale apprese la biomeccanica. Meyerchol’d annunciò pubblicamente la tecnica della biomeccanica nella primavera del 1922, proponendo l’addestramento dei riflessi dell’attore» (p. 116). Ejzenštejn aveva conosciuto, molto giovane, questo grande protagonista dell’avanguardia teatrale russa, nel cui pensiero convergevano, oltre alla riflessologia, il costruttivismo, la teoria delle emozioni di William James, aspetti del teatro orientale e le teorie tayloriste (cfr. Somaini, 2011, p. 7). Peraltro va ricordato che, rispetto al cinema, il giudizio di Meyerchol’d fu abbastanza negativo. Egli considerava il nuovo mezzo utile per la ricerca scientifica, ma poco efficace per l’arte (cfr. De Benedictis, 2001, p. 70). Etkind suggerisce che Ejzenštejn avesse sviluppato una sorta di analogo complesso edipico sia nei confronti del suo insegnante Vsevolod Meyerchol’d, sia riguardo a Sigmund Freud; entrambi erano simili a Saturno, il padre che divora i propri figli. «Perché sono così eccitato quando parlo di psicoanalisi, si chiedeva Ejzenštejn. C’era una risposta pronta: l’intera situazione all’interno della scuola freudiana si proponeva in modo simile ai rapporti tra Meyerchol’d e i suoi studenti. (…) Lo stesso tipo di grand’uomo anziano, infinitamente affascinante come maestro e terribilmente malizioso come persona; la stessa discordia, la rottura dell’armonia iniziale, (…) la stessa crescita energetica delle individualità e la stessa intolleranza per ogni segno di indipendenza. (…) Ejzenštejn andò ancora oltre nella sua introspezione. Proprio come Freud rappresentava Meyerchol’d, così Meyerchol’d simboleggiava il padre stesso di Ejzenštejn» (Etkind, 1993, pp. 316-317).
Di fatto, in una prospettiva storica generale, si constata che Ejzenštejn, come molte altre figure intellettuali della prima metà del Novecento, fu fortemente attratto dalle idee della psicoanalisi. Peraltro, sul piano personale, come si illustrerà poi, in più di una occasione egli volle intraprendere dei trattamenti terapeutici con esponenti del movimento psicoanalitico. In quel periodo, un filone minoritario del mondo della psicoanalisi russa sconsigliava la cura approfondita su soggetti dal temperamento artistico, con l’idea che ciò avrebbe potuto influire negativamente sulla creatività della persona. Riferisce Etkind (1993) che, in quel periodo, «negli ambienti intellettuali di Mosca girava una leggenda, che esiste tutt’oggi (e che potrebbe benissimo esser vera), su un certo psicoanalista di Mosca che aveva allontanato Sergej Ejzenštejn (…) dicendo che dopo la psicoanalisi il regista avrebbe dovuto cercare un lavoro di contabilità nel Comitato di Pianificazione Statale» (p. 60, nota 76). Va ricordato che, nei primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre, a Mosca era stata fondata una Società psicoanalitica e che diversi fra i suoi esponenti praticavano una qualche attività clinica (Angelini, 2008).
Esaminando il rapporto di Ejzenštejn con la psicoanalisi, si constata che, come accadde per altri grandi artisti dell’inizio del Novecento, essa rappresentò per lui il primo tentativo di organizzare, in modo scientifico o quantomeno razionale, le problematiche della soggettività interna dell’individuo, compreso il fenomeno artistico. Già Carroll, pur sottovalutando l’importanza della psicoanalisi e senza rilevare i collegamenti che si illustreranno poi fra Sergej Ejzenštejn, Lev Vygotskij e Alexander Lurija, scrive nel 1980: «Teorici come Ejzenštejn, Pudovkin e Balàs volevano stabilire un programma scientifico per la teoria del cinema. Ejzenštejn tentò, in particolare, di integrare lo studio scientifico del film con la psicologia, la sociologia e la linguistica. Egli credeva che il metodo scientifico potesse essere applicato, e in effetti doveva esserlo, allo studio dell’arte: la scienza e l’arte non potevano essere separate l’una dall’altra» (Carrol, 1980, p. 8, corsivo nell’originale).
L’interesse del regista va collocato nel quadro storico dell’incontro fra psicoanalisi e marxismo ai primi del Novecento. Numerosi furono i teorici sovietici che, nel periodo post-rivoluzionario, tentarono una sintesi fra queste due grandi dimensioni concettuali. Va ricordato che lo stesso Lev Trotskij (1924) scrisse, in Letteratura e rivoluzione: «La scuola psicoanalitica austriaca (Freud, Jung, Alfred Adler, etc.) ha dato un contributo incomparabilmente grande al problema della funzione svolta dal momento sessuale nella formazione del carattere individuale e della coscienza sociale. Qui, in sostanza, non si può neppure fare un confronto. Anche le più paradossali esagerazioni di Freud sono ben più importanti e feconde delle intemperanti congetture di Rozanov» (p. 35). Vasilij V. Rozanov (1859-1919) fu sostenitore di una sorta di religione naturalistica del sesso e della procreazione. Sempre Trotskij (1923), in Rivoluzione e vita quotidiana aveva scritto: «La scuola dello psicoanalista viennese Freud (…) presuppone in partenza che la forza motrice dei processi psichici più complessi e delicati è il bisogno fisiologico. In questo senso generale è materialista. (…) Pavlov, come un palombaro, discende fino al fondo e fruga attentamente il pozzo dal basso verso l’alto, mentre Freud sta sopra il pozzo e con sguardo acuto cerca di penetrarne le acque sempre mosse e sconvolte. (…) Il tentativo di dichiarare la psicoanalisi “incompatibile” con il marxismo e di voltare semplicemente le spalle al freudismo è troppo semplice. (…) Si tratta di una ipotesi di lavoro che può consentire e, indubbiamente, consente deduzioni e congetture che si sviluppano lungo la linea di una psicologia materialistica» (p. 93). Non va dimenticato che, sempre Trotskij (1910), precedentemente, aveva dedicato parecchie pagine ad Alfred Adler e al suo contributo scientifico.
Ha scritto Bianchi (2019): «Che cosa rimase dell’interesse per la psicoanalisi nel percorso politico e nell’elaborazione teorica di Trotskij? Certo una valutazione dei fattori soggettivi nell’analisi dei processi storici e un’attenzione del tutto singolare alla psicologia delle masse» (pp. 720-721). In realtà questo protagonista della rivoluzione bolscevica non entrò mai nel merito delle teorie freudiane. La sua fu una lettura politica; egli voleva evitare imposizioni, in campo scientifico e culturale, da parte delle autorità sovietiche; altrimenti il confronto con la psicoanalisi avrebbe perso ogni carattere di scientificità per configurarsi esclusivamente sul piano ideologico.
Quest’attenzione di Trotskij nei confronti della psicoanalisi avrebbe, conseguentemente, collocato quest’ultima in un’area valutata con sospetto da parte dei teorici afferenti al regime nel periodo stalinista. Alexander Etkind (1993, cap. 7) ha dedicato una riflessione approfondita ai rapporti fra Trotskij e la psicoanalisi. Va aggiunto che lo stesso Vygotskij fece riferimento, in alcune circostanze, a dei concetti reperibili negli scritti del rivoluzionario sovietico (Bianchi, 2016, p. 727; Veggetti, 2006b, p. 27).
Riguardo alla storia della psicoanalisi nella Russia sovietica e al suo iniziale successo intorno agli anni 1920, bisogna ricordare che già precedentemente, a partire dal 1911, si era costituita a Mosca una Società psicoanalitica. Essa non ebbe lunga durata ma, dopo la guerra e la rivoluzione d’ottobre, la psicoanalisi visse una stagione felice, per quanto breve, nella nuova Repubblica sovietica.
A Kazan, dove nel 1908 era stato fondato il primo laboratorio russo di psicologia sperimentale a opera di Vladimir Bechterev, nel 1922 sorse una seconda Società psicoanalitica su iniziativa di Aleksandr R. Lurija, che lì aveva svolto i suoi studi universitari. Lo stesso Lurija, poi trasferitosi a Mosca nel 1923, avrebbe alimentato l’attività della Società psicoanalitica moscovita, che aveva ripreso i suoi lavori dopo le interruzioni dovute alla guerra e alla rivoluzione. Nella Russia sovietica, da varie prospettive, si tentarono in quel periodo accostamenti tra la psicoanalisi e il marxismo. Riporta Etkind (1993) che «la questione dell’inconscio era, negli anni 1920, una espressione d’interesse generale per le forze motrici della rivoluzione» (p. 180).
A Mosca, come si è indicato, Lurija partecipò all’attività della risorta Società psicoanalitica moscovita, divenendone segretario e soggetto fondante nella ricostruzione di una comunità di psicoanalisti che si era dissolta con la guerra e la rivoluzione. Anche Vygotskij partecipò attivamente alle riunioni e ai seminari psicoanalitici. In tale ambito, rapporti sull’attività di entrambi compaiono nei comunicati inviati da Lurija all’Internationale Zeitschrift für Psychanalyse (Angelini, 1988, p. 114).
Non è facile individuare il periodo esatto in cui Ejzenštejn entrò personalmente in contatto con Vygotskij e Lurija; ma già negli anni precedenti al 1928, durante la preparazione del film Ottobre, è certo che egli costituì una amichevole “squadra”, con Vygotskij e Lurija, che includeva anche il linguista Nicolaj J. Marr e dibatteva i temi dell’arte cinematografica. Questo gruppo fu di grande aiuto a Ejzenštejn intorno alla metà degli anni 1930. Di ritorno da un lungo viaggio all’estero e da un soggiorno negli Stati Uniti, il regista attraversò un periodo di grande crisi personale e professionale, subendo anche gli attacchi dei teorici del regime.
D’altra parte, gli intellettuali coinvolti nella produzione scientifica o artistica, come Ejzenštejn, guardavano con attenzione al dibattito teorico interno al pensiero marxista e, pur esistendo conflittualità e critiche, ritenevano che il loro lavoro avrebbe potuto trarre solidità metodologica, energia conoscitiva ed elementi di riflessione dalle posizioni e dalle idee emerse in quel contesto. Il volume “Psicologia e marxismo”, che fu curato da Konstantin N. Kornilov nel 1925 ed ebbe un vasto riscontro nel mondo culturale sovietico, fu il risultato del lavoro comune di diversi elementi dell’Istituto statale di psicologia sperimentale di Mosca, di cui lo stesso Kornilov era direttore dal 1923. Oltre a Lurija e a Vygotskij, partecipavano al volume e al dibattito complessivo personaggi come M.A. Rejsner, giurista, P.P. Blonskij, pedagogista, B.D. Fridman, filosofo, A.R. Zalkind, medico, tutti membri della Società psicoanalitica moscovita. Ha scritto la Tugaybayeva (1996): «Il periodo fu caratterizzato da un aumento della creatività e da uno scambio di opinioni, relativamente libero, tra i sostenitori di diverse teorie. La psicoanalisi venne discussa insieme alla riflessologia e alla ricerca comportamentale. I sostenitori di questi orientamenti furono costretti a riadattarsi alle nuove sfide della società e al nuovo orientamento ideologico. Tra le domande che dovevano affrontare in merito ai rispettivi approcci c’erano: rientra nello spirito del marxismo? Permette una comprensione materialistica del mondo? E questa prospettiva aiuterà a creare l’uomo nuovo concepito come un costruttore del comunismo? Se la psicologia potesse o meno esistere nel nuovo contesto ideologico fu fortemente dibattuto. Tuttavia, gli psicoanalisti sovietici iniziarono energicamente a dirigere la loro attenzione verso le ricerche indicate dalla nuova società. Una di queste richieste riguardava la formazione dell’“uomo nuovo”. Sin dai primi giorni della sua esistenza, lo stato sovietico si occupava di educare i bambini alla lealtà verso le idee del bolscevismo» (p. 257).
La figura di Aron Borisovič Zalkind merita di essere approfondita. Egli fu un personaggio di riferimento per una rete che comprendeva psicoanalisti, psicologi, psichiatri, medici e intellettuali di varia estrazione. Tutti costoro avevano abbracciato, con impeto, gli ideali della rivoluzione d’ottobre. Contemporaneamente, ritenevano che la psicoanalisi fosse un potente strumento per cambiare il mondo e per liberarsi dai legami della morale borghese. Zalkind si trovò in difficoltà non solo per aver aderito alla psicoanalisi; infatti il problema più serio che gli si pose, nonostante fosse un esponente della riflessologia, fu quello di essere stato uno dei leader della pedologia sovietica, (Angelini, 1988, pp. 56 e 86). La “pedologia” fu un movimento psicopedagogico che ebbe una larga diffusione dopo la rivoluzione e poi cadde in disgrazia nei primi anni 1930 per le usuali accuse di adottare concetti e metodi “borghesi”. La pedologia fu bandita con un decreto del Comitato centrale nel 1936. A seguito di questo stesso decreto anche la scuola vygotskiana venne dispersa, poiché Vygotskij era stato uno dei principali esponenti della pedologia e l’aveva insegnata nell’Università di Mosca. Il medesimo decreto del 1936 sancì, formalmente, la definitiva scomparsa del movimento psicoanalitico. In effetti, la psicoanalisi era stata avversata dal governo di Stalin fin dal 1925 e da allora le opere di Freud poterono essere ristampate in territorio sovietico, solo nel 1989.
Zalkind, apertamente schierato a favore della psicoanalisi come altre personalità di spicco, era il direttore della rivista Pedologija, e nel 1930 divenne anche il direttore dell’Istituto di psicologia di Mosca, poi ribattezzato Istituto di psicologia, pedologia e psicotecnica. Analogamente, Vygotskij e Lurija collaborarono con tale istituto dal 1925.
Solo di recente si è saputo che Zalkind morì nel 1936 subito dopo esser venuto a conoscenza del decreto. Per alcuni fu vittima di un infarto; secondo altri si sarebbe suicidato (cfr. Mecacci, 2011, p. 102). Sergej Ejzenštejn fu presentato a Zalkind nel 1923 da Anija Kasatkina, con la quale – afferma la Bulgakova (1998, p. 42) – il regista aveva allora una relazione sentimentale. Ciò avvenne durante una rappresentazione della sua commedia Anche il più saggio sbaglia. In seguito Ejzenštejn chiese assistenza a Zalkind per intraprendere un trattamento basato sul metodo psicoanalitico. I due s’incontrarono spesso, svolgendo una sorta di analisi informale. Infatti Zalkind, più adleriano che freudiano (Mecacci 2011, p. 102), non adottava una procedura ortodossa, nell’analizzare i suoi pazienti. Secondo la Bulgakova (1998, p. 60), fu proprio Zalkind a presentare Ejzenštejn a Lurija e Vygotskij.
Tra i maggiori esponenti dello sforzo pedagogico, volto alla costruzione dell’“uomo nuovo”, vi fu anche Pavel P. Blonskij, membro della Società psicoanalitica moscovita e tra i fondatori della “pedologia”. Tale disciplina si diversificava dalla pedagogia e veniva posta, metodologicamente, a monte di ogni indagine pedagogica. Il rapporto fra pedagogia e pedologia avrebbe dovuto essere come quello fra il giardinaggio e la botanica. Anche Blonskij, assieme a Lurija, Vygotskij, Fridman e altri studiosi, fu tra i ricercatori del citato Istituto statale di psicologia sperimentale di Mosca.
In senso generale, questa schiera di pensatori si poneva, in ambito psicoanalitico, un problema controverso che toccava aspetti fondamentali della teoria marxista. Tutti si chiedevano, nella loro particolare prospettiva d’interesse, in che modo interagisse la dimensione individuale soggettiva, psicologica, con le grandi leggi del movimento sociale descritte dal materialismo storico. Ejzenštejn, nella sua posizione di artista, partecipava a questo dibattito. In tale confronto si manifestavano, nel mondo sovietico, le varie teorie psicologiche presenti allora, come lo strutturalismo con Wundt e Titchener, il funzionalimo con Mead e Thorndike, il comportamentismo con Wundt, l’associazionismo con Ebbinghaus e Müller. Alla corrente associazionista possono essere ricondotte le opere di Pavlov e Bechterev che, da una prospettiva fisiologica, intervennero nel dibattito psicologico. Particolare attenzione ricevette la Gestalt con Wertheimer, Koffka, Köhler e in seguito Lewin. Vygotskij fu molto interessato alla teoria della Gestalt, e con alcuni accenti critici si confrontò con le idee di Lewin (cfr. Mecacci, 2017, pp. 130-133).
La psicoanalisi ebbe inizialmente un grande successo nella Russia postrivoluzionaria perché offriva utili strumenti per affrontare il problema del rapporto fra soggetto umano e leggi storiche. Paradossalmente, come si descriverà, proprio per queste sue capacità e per i suoi collegamenti teorici con il pensiero marxista dell’Europa occidentale, criticato dal regime sovietico, la psicoanalisi sarebbe stata fortemente contrastata dai teorici allineati con il dogmatismo ufficiale.
Vygotskij attrasse l’attenzione dei più giovani, prima Lurija e in seguito Aleksej N. Leont’ev (1932, 1965, 1973), poiché possedeva sia una concezione globale del rapporto tra marxismo e psicologia, sia la capacità di individuare i collegamenti con le altre discipline. Il suo pensiero ha molto influenzato il mondo della cultura contemporanea. «Vygotskij – ha scritto Mecacci (1986) – ha dato contributi preziosi: dall’estetica alla linguistica, dalla psicologia alla psichiatria» (p. 9).
Non è possibile in questo contesto approfondire esaurientemente le complesse concezioni di Vygotskij e la sua amplissima produzione scientifica. Va comunque ricordato che inizialmente Vygotskij, Lurija e Leont’ev rimasero all’interno dell’Istituto di psicologia diretto da Kornilov, proponendo lavori scientifici in cui si avvalevano anche di alcuni concetti provenienti dalla reattologia, che il suddetto direttore propugnava. Tale cornice teorica, però, non era in grado di contenere le loro proposte. In seguito, Leont’ev avrebbe anche sviluppato una posizione autonoma (cfr. Veggetti, 2004, 2006a). Quando le loro idee iniziarono a emergere maggiormente, lasciarono l’Istituto. Nel 1927-28, pur mantenendo dei collegamenti con l’Istituto di Kornilov, i tre si associarono al Laboratorio di psicologia dell’Istituto per l’educazione comunista. Nello stesso tempo, Vygotskij s’impegnò nell’organizzare l’Istituto di difettologia, in cui si studiava lo sviluppo dei bambini ritardati.
Oltre a fare una revisione e a formulare delle critiche sulle scuole di psicologia allora esistenti, il gruppo iniziò la formazione degli studenti secondo un orientamento di pensiero e di ricerca che avrebbe preso la denominazione di “teoria storico-culturale”. Mentre giungevano alla conclusione che le loro nuove concezioni richiedevano metodi nuovi, raccolsero intorno a sé un piccolo ma entusiasta gruppo di studenti con l’intento di avviare sperimentazioni. Così si formò la pyatorka o gruppo dei cinque studenti, che comprendeva L.I. Božovič, R.E. Levina, N.G. Morozova, L.S. Slavina e Aleksandr Zaporožec. Alcuni di questi studenti, che svolgevano il loro lavoro sotto la guida diretta di Lurija, dopo la seconda guerra mondiale sarebbero divenuti delle figure eminenti nella psicologia sovietica.
È qui opportuno ricordare la singolare personalità di Zaporožec (1905-1981) che fu anche allievo e amico di Sergej Ejzenštejn. Scrive Cole (1979): «Lurija e Vygotskij si incontravano regolarmente con Sergej Ejzenštejn per discutere i modi in cui le idee astratte che formavano l’essenza del materialismo storico potevano essere tradotte in immagini visive proiettate sullo schermo. Così accadde che Zaporožec, che era stato attore in Ucraina prima di giungere a Mosca ed era stato raccomandato a Sergej Ejzenštejn, finì per diventare uno psicologo. Alla fine degli anni 1920 egli svolse il ruolo di “orecchio” della psicologia nel mondo del cinema, partecipando alle discussioni di Ejzenštejn che poi riferiva a Vygotskij e Lurija. Ejzenštejn utilizzò l’aiuto dei suoi amici psicologi nel risolvere non soltanto il difficile problema di traduzione dai concetti verbali a quelli visivi, ma anche il problema empirico della valutazione del successo. Con il loro aiuto egli costruì dei questionari per il pubblico, composto prevalentemente da studenti, lavoratori e contadini, per determinare se avevano capito le sue immagini come egli voleva» (p.166).
Nel fecondo vivaio d’idee sorto dopo la rivoluzione d’ottobre molti intellettuali e psicologi, a partire dallo stesso Lurija, si erano convinti che la psicoanalisi potesse offrire le basi metodologiche per lo sviluppo di un pensiero psicologico marxista. Attraverso la psicoanalisi veniva ricercato quell’anello mancante, fra struttura e sovrastruttura, in cui dominava la psiche umana, contro ogni concezione automatica degli eventi storici come suggerita dal “marxismo meccanicista”.
I lavori di Lurija “La psicoanalisi e le tendenze della psicologia contemporanea” (1923) e “La psicoanalisi come sistema di psicologia monista” (1925) si muovono in questa direzione, attribuendo valore fondante, in senso marxista, ai concetti psicoanalitici. Miller evidenzia gli aspetti epistemologici di quest’ultimo lavoro di Lurija, per i quali il marxismo presupporrebbe che «il mondo sia “un unico sistema di processi materiali”, privo di dualismo e di fenomeni non materiali e statici. Sul piano psicologico, questo si tradurrebbe nel postulato che “la mente umana sia un prodotto del cervello e, in ultima analisi, degli effetti dell’ambiente e delle relazioni sociali nonché delle condizioni di produzione sottostanti, sul cervello di ogni essere umano”» (Miller, 1998, p. 80). L’aspirazione di fondo riguardava la possibilità di porre fine al dualismo mente/corpo.
In questa situazione, nell’ambiente intellettuale moscovita esistevano due fazioni, apertamente schierate pro e contro l’ipotesi di un collegamento fra marxismo e psicoanalisi. Purtroppo, come accennato, i seguaci del pensiero psicoanalitico furono fortemente penalizzati dal fatto che i teorici sovietici dogmatici collocarono la psicoanalisi nell’area concettuale del cosiddetto austromarxismo e del pensiero di Trotskij. L’austromarxismo era una corrente di pensiero, sorta in Austria, che andava sottoponendo a revisione alcuni aspetti del marxismo negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale. Questo orientamento teorico poneva l’accento sulla necessità di superare le interpretazioni meccanicistiche del pensiero di Marx. Inoltre, l’austromarxismo evitava la prospettiva rivoluzionaria e vedeva nella lotta democratica parlamentare la via maestra per il raggiungimento della meta socialista. Si trattava di un bacino di idee, allora pesantemente attaccate dai teorici sovietici i quali, a torto o a ragione, erano convinti di difendere la purezza del materialismo dialettico marxista.
Negli anni successivi, il rifiuto della psicoanalisi si ufficializzò. Ha scritto la Tugaybayeva (1996):
«Nel 1931 Stalin pubblicò una sua lettera dal titolo “Note sulla storia del bolscevismo” sulla rivista Proletarskaja Revolyutsija. Si riferiva al trotskismo come a “un’avanguardia della borghesia controrivoluzionaria” e chiedeva un’aspra lotta contro il “liberalismo marcio” e il “contrabbando trotskista”. Successivamente, il movimento contro la psicoanalisi si trasformò in una concreta persecuzione dei “nemici di classe nella scienza”. Fu avviata una ricerca di quei nemici che contrabbandavano il trotskismo in Unione Sovietica. Il primo numero di Psichologija, pubblicato nel 1932, riportava articoli di Talankin, Šemiakin e Geršonovič, che affermavano di aver identificato un legame diretto tra la psicoanalisi e il trotskismo. (…) Trotskij fu ritratto come sostenitore ideologico della psicoanalisi e avversario del materialismo e del marxismo. Coloro che accettavano Freud e trovavano le idee psicoanalitiche compatibili con la visione marxista della psicologia furono automaticamente inclusi nella categoria degli aderenti al trotskismo. (…) All’inizio del 1931 si tenne una serie di incontri, nell’Accademia dell’educazione comunista, in cui vennero segnalati gli “errori ideologici” di Lurija, Vygotskij, Zalkind e altri. Si diceva che mostravano “un atteggiamento disinvolto” nei confronti della psicoanalisi e del freudismo. Nella stampa e negli ambienti accademici vennero richieste ritrattazioni pubbliche delle “visioni ideologicamente errate”. Coloro che erano stati associati alla psicoanalisi dovevano confessare i loro errori e peccati passati, quindi riconoscere che tale orientamento era una “teoria biologica, antimarxista e reazionaria”» (p. 263).
Questo panorama aiuta a comprendere i motivi teorici per cui la psicoanalisi scomparve dal mondo culturale sovietico, costringendo personalità come Vygotskij e Lurija ad abbandonare completamente, sul piano pubblico, il sostegno del punto di vista psicoanalitico.
Prima che la situazione della psicoanalisi in Russia divenisse problematica e conflittuale, Ejzenštejn si era comunque avvicinato alle concezioni psicoanalitiche e le aveva in parte utilizzate per elaborare le sue riflessioni sull’arte. La psicoanalisi fu uno degli strumenti che il regista utilizzò per confrontarsi col problema del metodo rispetto alla realizzazione artistica. La questione del metodo veniva posta alla base di una impresa teorica generale in cui sarebbero dovuti confluire anche i lavori sul montaggio e sulla regia e, infine, quello che può essere considerato un saggio di estetica, portatore di un originale modello teorico, La natura non indifferente, scritta fra il 1945 e il 1947 (cfr. Montani, 1981, p. X). L’opera complessiva di Ejzenštejn appare come un impegnativo progetto intellettuale volto a comprendere il significato di ogni intersezione fra il cinema e l’insieme delle scienze umane.
La psicoanalisi fu uno tra i principali interessi del regista, sia pur con alcune contraddizioni. Sul piano cronologico, i riferimenti a Freud nelle Memorie del regista sono precoci. Ejzenštejn rievoca la prima, entusiastica lettura del saggio di Freud (1910) Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (Ejzenštejn, 1946-47, p. 242), che gli aveva dato la possibilità d’interpretare la propria energia creativa in termini di sublimazione. Nel corso della vita egli ebbe numerosi incontri sia sul piano intellettuale, con i concetti della disciplina psicoanalitica, sia nella realtà concreta, con alcuni degli esponenti della prima generazione di psicoanalisti (ibidem, p. 242). Ejzenštejn ricorda di aver letto, dopo il primo approccio con Freud, Psicoanalisi e sue applicazioni, di Hans Sachs & Otto Rank (1913). Osserva Rice (1993, pp. 121-123) che questi due autori si occuparono della letteratura russa e, in particolare, della dimensione psicoanalitica in Dostojevskij, ancor prima che Freud (1928) si dedicasse al grande autore, un elemento in più per comprendere l’interesse suscitato in Ejzenštejn dai due psicoanalisti. Il regista, rievocando con affetto la figura di Sachs, scrisse: «Con Hans Sachs stesso, questa strana, vecchia e saggia salamandra con gli occhiali e una terribile maschera da negro, “simbolo dei complessi”, appesa sopra un basso lettino per i pazienti, feci conoscenza e strinsi un’intensa amicizia (…) a Berlino. Dalle sue mani ricevetti il libro più interessante di tutta la letteratura psicoanalitica, Versuch einer Genitaltheorie di Ferenczi [1924] [Thalassa], che mi chiarì molte cose (a dir la verità post factum!) che avevo radunato nel mio appassionato tentativo di penetrare i segreti dell’estasi» (Ejzenštejn, 1946-47, p. 439).
Ejzenštejn fu molto attratto dalle opere di Otto Rank e Sandor Ferenczi, per il loro interesse verso gli stati mentali arcaici. Del resto questa attenzione per l’origine e per la storia dello sviluppo è presente in tutta la produzione intellettuale del regista. I suoi rapporti con il pensiero psicoanalitico però ebbero qualche contraddizione. La sua cultura marxista, orientata verso il sociale e la spontanea inclinazione, in qualità di artista, verso il “fare” gli rendevano faticoso collegarsi a una disciplina concentrata sull’individuo e a quel tempo ancora poco attenta alla dimensione della storia collettiva. Scrisse Ejzenštejn (1946-47): «La maledizione della conoscenza, incapace d’impadronirsi dell’azione, incombe su tutta la psicoanalisi» (p. 243).
Ejzenštejn, complessivamente, sostenne sempre i concetti psicoanalitici ma, come accadde a molti altri intellettuali sovietici che avevano vissuto la rivoluzione d’ottobre, non poté esprimere queste sue idee nella seconda parte della vita. Una parziale nota critica, verso la psicoanalisi, si trova nel volume La regia: l’arte della messa in scena, scritto fra il 1932 e il 1933 per gli studenti dell’Istituto statale di cinematografia di Mosca, dove Ejzenštejn era stato nominato titolare della cattedra di Regia (cfr. Ejzenštejn 1932-1933, pp. 586-592). In piena reazione stalinista, sotto l’attacco dei teorici fondamentalisti del regime, dopo che la Società psicoanalitica moscovita si era dovuta sciogliere, Ejzenštejn si ritrovò a esprimere dei dubbi riguardo alla capacità della psicoanalisi di interpretare pienamente la dinamica della creatività artistica. Tuttavia, nelle stesse pagine, non riuscì a fare a meno di scrivere che «è innegabile che i risultati della psicoanalisi siano assai utili per orientarsi nel territorio della neuropsichiatria. Per i casi patologici, lo schema freudiano corrisponde, sotto molti aspetti, all’ordine effettivo delle cose» (Ejzenštejn 1932-33, p. 587). In quel periodo, già da tempo, il nome di Freud era stato letteralmente fatto scomparire dalle riviste specializzate e dalla stampa (Angelini, 1988, 177).
La produzione letteraria di Ejzenštejn, prescindendo da rare riserve, testimonia complessivamente un chiaro influsso del pensiero freudiano e una sua ricognizione approfondita. In virtù dei suoi cordiali rapporti con Hanns Sachs, fu invitato da quest’ultimo, nell’ottobre del 1929, a tenere una conferenza nell’Istituto psicoanalitico di Berlino, ovvero il massimo centro, tra le due guerre, di studio e formazione nell’ambito della psicoanalisi. In questa occasione, parlò della natura conflittuale del movimento espressivo nei termini di un contrasto fra le pulsioni inconsce e la volontà che tende a frenarle e a reprimerle. Sempre in tale circostanza, in virtù di una segnalazione di Lurija, Ejzenštejn fu presentato al gestaltista Kurt Lewin, con il quale discusse il problema dell’espressività artistica e conobbe Wolfgang Köhler. Anche nella storia del movimento psicoanalitico, l’interesse per la Gestalt è presente ed è stato condiviso da autorevoli studiosi come, in Italia, Cesare Musatti.
Dopo il ritorno in Unione Sovietica, per Ejzenštejn, non ci sarebbero più state occasioni per confrontarsi apertamente e pubblicamente con la psicoanalisi. Come si è detto, negli anni 1930-40 prevalse in URSS un clima ideologico ostile a Freud; conseguentemente, ogni riferimento alla psicoanalisi, negli scritti destinati alla pubblicazione, doveva essere eliminato o criptato. Di fatto non si poteva parlare pubblicamente del pensiero psicoanalitico, nemmeno per criticarlo.
Tuttavia, già da prima della rivoluzione d’ottobre molti testi di psicoanalisi erano stati tradotti e divulgati in Russia. I Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud (1905) e “Il contenuto delle psicosi” di Jung (1908) erano stati, contemporaneamente, tradotti in russo nel 1909. Da allora, mentre l’opera junghiana era stata trascurata, escludendo una parziale versione dei Tipi psicologici (Jung, 1921), nel 1924 quasi tutta la pluridecennale produzione di Freud aveva ricevuto il beneficio della traduzione (Angelini, 1988, p. 41). Per ultimo fu pubblicato L’avvenire di una illusione (Freud, 1927a), tradotto in russo nel 1928. Nei primi due decenni del Novecento, prima che prevalesse l’ideologia dogmatica e meccanicista, favorita dallo stalinismo, la Russia aveva elaborato un pensiero e una presenza autonoma all’interno del movimento psicoanalitico internazionale. Per questo Ejzenštejn, negli anni di sviluppo delle sue idee, si trovò in forte contatto con la psicoanalisi.
Sul piano complessivo, l’impianto concettuale del pensiero di Ejzenštejn si ricollega alla filosofia dialettica d’impostazione marxista. Egli, come premessa teorica, concepisce un collegamento, o meglio un rapporto autenticamente dialettico fra coscienza e istinto. Devono essere superati gli schemi elementari che assegnano a uno dei due poli la superiorità sull’altro. Su tale base, la regressione verso gli strati più bassi della coscienza, cui il regista dedica una centralità teorica e di cui disserta, trova proprio nell’arte una delle sue espressioni privilegiate. Egli considera il procedimento artistico come un percorso di liberazione ed espressione dei contenuti profondi e regrediti.
Questa posizione, che rifugge dall’idea di una immersione conquistatrice operata da parte di aree “più forti” a scapito di quelle “più deboli”, nel panorama sociale sovietico aveva delle analogie concettuali di tipo politico. Per essa riecheggiava l’immagine di una società comunista dove non esistesse una rigida e meccanica divisione fra avanguardia rivoluzionaria e masse. A ciò aggiungendo la fantasia di un mondo senza classi, dove il passato venisse superato, ma non rinnegato, un passato capace di sostenere il valore del pensiero primitivo e non differenziato contro l’individualità e la singolarità del mondo moderno capitalista. «Paragonava spesso – scrive Etkind (1993) – stati di coscienza estatici e indifferenziati (la “proto-psiche”) alla società senza classi. Per lui, la proto-psiche offriva un ideale psicologico e, come Engels, individuava la realizzazione della sua idea sociale nel gruppo primitivo, senza differenze di classi e promiscuo. In tali idee primitivistiche, il passato e il futuro, il progresso e il regresso sarebbero risultati confusi, proprio come si sarebbero mescolati maschio e femmina, soggetto e oggetto, individuo e massa» (p. 329). Si trattava, in sostanza, di una precisa opzione teorica che coinvolgeva concetti psicoanalitici nel dibattito filosofico interno al pensiero marxista.
In questo filone d’idee si possono collocare alcuni interessi che appartennero al pensiero maturo di Ejzenštejn e che si evidenziarono soprattutto negli ultimi anni della sua vita. In particolare, il tema della “memoria prenatale” o “intrauterina”, rispetto al quale fu fortemente influenzato dai concetti psicoanalitici. Egli era convinto che questo tipo di memoria, costituitasi nella fase della “esistenza pre-individuale” potesse giocare un ruolo estremamente importante a livello inconscio. Queste ipotesi sono esposte in varie parti della raccolta Metod, pubblicata nel 2002, e anche nelle Memorie, a cui lavorò negli ultimi due anni della sua vita.
In diversi scritti è trattato il tema della regressione, intesa come processo capace di risalire a ritroso verso forme primordiali di vita e di esistenza. Ejzenštejn pensa agli organismi unicellulari, ma soprattutto al feto all’interno del ventre materno. Ejzenštejn si riferì al tema del desiderio di un ritorno alla madre, entrato nel panorama dei suoi interessi teorici all’inizio degli anni 1930 ed esplorato fino alla fine della sua vita, con l’espressione tedesca Mutterleibversenkung (“sprofondamento nel ventre materno”). Il termine veniva sintetizzato spesso nell’acronimo MLB, una sigla ripresa, probabilmente, dall’articolo di Franz Alexander (1923) “Il significato biologico dei processi psichici: sulla teoria dell’immersione del Buddha”.
Questi argomenti si ritrovano, in particolare, nel saggio dedicato a Walt Disney scritto, frammentariamente, fra il 1940 e il 1946 e pubblicato nel 1986. Gli stessi temi emergono in varie parti di Metod e delle Memorie, scritte nel 1946-47. Vengono messi al centro dell’attenzione diversi aspetti della vita intrauterina del feto che, nella prospettiva assunta, hanno lasciato traccia nella storia delle arti. Lo scopo è quello di rielaborare artisticamente il tema della regressione nel grembo materno. Concettualmente, Ejzenštejn (1946-47, p. 448) giunse a interessarsi della vita intrauterina mentre tentava di interpretare un vasto quadro relativo ai fenomeni antropologici, etnologici e della psicologia di massa. L’intento era quello di approfondire il significato dell’estasi, notando come essa venisse spesso descritta come una sorta di “sprofondamento”. Questo argomento, più d’ogni altro, favorì l’incontro del regista con il pensiero psicoanalitico. In tal senso va considerato il pensiero derivante dal citato lavoro di Franz Alexander (1923). Secondo Bordwell (1993, p. 194), nel concetto di estasi, Ejzenštejn accolse anche le suggestioni sulla sessualità provenienti dalle idee di Wilhelm Reich.
Reich, nel 1929, fece un viaggio di due mesi in Unione Sovietica, soggiornando a Mosca dove tenne più d’una conferenza nell’Accademia comunista (cfr. Etkind, 1993, p. 243). Un itinerario simile, in URSS, percorsero in quel periodo Otto Fenichel e molti altri intellettuali occidentali, attratti dal mondo sovietico (Angelini 2019, 20). Tra i severi membri dell’Accademia comunista, ovviamente, Wilhelm Reich non trovò spazio per le sue teorie sulla sessualità. «Più tardi – riferisce Etkind (1993) – avrebbe accusato “quei furfanti” di Mosca di aver organizzato una campagna contro di lui all’interno del Partito comunista tedesco» (p. 243). Poco tempo dopo, nel 1930, Reich si sarebbe trasferito da Vienna a Berlino. Il trasferimento giunse al termine di un sofferto e conflittuale periodo, di cui troviamo indiretta testimonianza storica in alcune lettere che lo stesso Freud scrisse al turbolento allievo (Angelini, 2013). Anche nella capitale tedesca, l’impetuosità intellettuale di Reich non raccolse favori. Nel 1933 egli pubblicò Psicologia di massa del fascismo, un interessante contributo della psicoanalisi allo studio della mentalità autoritaria, e lo fece pervenire a Trotskij. Peraltro i due si sarebbero incontrati nel 1936 (cfr. Bianchi, 2019, p. 730). Di fatto nell’arco di un anno, fra il 1933 e il 1934, Reich fu espulso sia dall’International Psychoanalytic Association (IPA), sia dal Partito comunista tedesco. Gli psicoanalisti lo consideravano un pericoloso estremista politico, mentre i compagni di partito lo vedevano come un borghese corrotto perché si occupava di sessualità. Ejzenštejn, avendo frequentato l’ambiente della psicoanalisi berlinese, era certamente a conoscenza dell’opera di Reich. Inoltre esiste testimonianza di un breve carteggio fra i due (Ionin, 1977, pp. 176-179). Va comunque messo in evidenza che l’idea di estasi, nella riflessione portata avanti dal regista, è concettualmente assai più ampia della dimensione, essenzialmente sessuale, propugnata da Reich.
La principale ispirazione di Ejzenštejn, rispetto alla nozione di estasi, giunge soprattutto dalle idee dei già citati due autori provenienti dalla cerchia dei primi allievi di Freud: Rank e Ferenczi. Entrambi offrirono centralità all’idea di un trauma cui veniva attribuito un valore psichicamente fondativo. Nello stesso anno, il 1924, Ferenczi diede alle stampe Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, mentreRank pubblicò Il trauma della nascita e il suo significato psicoanalitico. In queste opere Ejzenštejn cercò argomenti per individuare la sua concezione di una regressione verso l’originario, perseguendo una linea tesa, sempre in tale prospettiva regressiva, a esaltare il valore dell’opera d’arte. Certamente, già prima di allora, Ejzenštejn aveva letto Psicoanalisi e sue applicazioni scritto da Rank & Sachs (1913) e Il tema dell’incesto di Rank (1912). Come è noto le posizioni di Rank si discostavano da quelle di Freud, da cui venne criticato.
Mentre Freud nelle sue prime proposte teoriche fa derivare l’angoscia da conflitti nevrotici inconsci che colpiscono l’area della sessualità, Rank riporta ogni sentimento angoscioso all’esperienza di angoscia sperimentata nella nascita. Parallelamente, ritiene che ogni esperienza di piacere tenda a riproporre il piacere originario, ovvero il piacere di essere immerso nel grembo materno. Il trauma biologico della nascita, ovvero la perdita di quel piacere originario, avrebbe un ruolo fondativo per la psiche. Ciò costituisce un elemento di contrasto con le posizioni di Freud, che indaga l’inconscio sul piano specificamente psichico mentre Rank investiga sui fenomeni inconsci collocandone l’origine in un trauma somatico. Inoltre, per Rank gli strati biologici più profondi, a livello inconscio, sono collegati con i contenuti coscienti più elevati della produzione mentale, come se alto e basso possano corrispondere fra loro. Rank poi postula un desiderio inconscio e continuamente rinnovato di far ritorno all’utero materno, desiderio questo che trova espressione nel soddisfacimento sessuale e in varie forme di sublimazione religiosa e idealizzazione artistica. Rank indica, nel trauma della separazione del bambino dalla madre, la prima esperienza di angoscia, la cosiddetta “protoangoscia”. A essa il bambino risponderebbe organizzando la propria vita psichica attraverso i fantasmi e la formazione della propria identità pur mantenendosi, a livello inconscio, il desiderio di ritornare nel grembo materno. Ciascun episodio di angoscia vissuto nell’età adulta rimanderebbe al trauma della nascita. Anche se Ejzenštejn s’ispira alle idee di Rank, queste ultime non possono essere sovrapposte alle prospettive artistiche del regista. Come ha scritto Lena Corritore (2021a), «se Rank parla di un desiderio inconscio incessantemente rinnovato di far ritorno all’utero, che trova espressioni nel soddisfacimento sessuale e in diverse forme di sublimazione religiosa e idealizzazione artistica, Ejzenštejn ricerca le manifestazioni di questa pulsione nel materiale e nella struttura compositiva delle opere d’arte di ogni epoca e provenienza».
Ejzenštejn vuole porsi il Grundproblem, ovvero la “domanda fondamentale”riguardo a quali leggi siano alla base della costruzione di una vera opera d’arte. Nel suo pensiero, tali leggi corrispondono a quelle della dialettica nella declinazione marxista, e sono universali; ovvero regolano contemporaneamente lo sviluppo della natura e dell’uomo, anche nella sua dimensione sociale. È in questo quadro che Ejzenštejn colloca l’idea che l’inconscio corrisponda a uno stadio di sviluppo arcaico della psiche, caratterizzato da una forma di pensiero sensoriale, direttamente collegata ai fenomeni biologici arcaici. Riguardo alla natura di tali fenomeni, la sua attenzione è attratta dal periodo che precede la presenza dell’individuo nel mondo. È un periodo che inizia con il concepimento, prosegue nella fase prenatale e culmina con il momento stesso della nascita. «L’interesse per la fase prenatale dell’esistenza – scrive Ejzenštejn (1946-47) – è sempre stato forte in me. E ben presto questo interesse si è esteso anche al campo dell’esistenza precedente la specie. Ho iniziato a interessarmi alle fasi dello sviluppo biologico, le fasi che precedono lo stadio umano! Non limitandosi solo a ciò, la mia cerchia d’interessi si è estesa alle prime forme dei rapporti sociali: la società primitiva precedente la suddivisione in classi, le forme particolari di comportamento e di pensiero. E tutti questi campi mi hanno interessato sotto l’aspetto di permanenza di tutte quelle fasi all’interno della nostra coscienza, nel nostro pensiero e comportamento» (pp. 358-359).
In realtà, Ejzenštejn va assai oltre ai concetti di Rank e ipotizza, addirittura, che gli individui conservino memoria dell’attimo del loro concepimento; ovvero della anfimissi, la fusione dei nuclei (pronuclei) dei gameti o cellule sessuali (uovo e spermatozoo) che si uniscono nell’atto della fecondazione. In questo momento, secondo il regista, si situa la primitiva esperienza individuale dell’estasi. Ma è proprio l’estasi (l’uscire da sé) che il regista si propone di evocare nello spettatore con la sua opera d’arte. «Il pathos è ciò che costringe lo spettatore a balzare sulla poltrona. È ciò che lo costringe a scattare. È ciò che lo costringe ad applaudire, a gridare. È ciò che fa brillare i suoi occhi d’entusiasmo, prima che su di essi appaiano le lacrime dell’entusiasmo. In breve è tutto ciò che costringe lo spettatore a uscire da sé» (Ejzenštejn, 1946-47, p. 368, corsivi nell’originale). È un grande sforzo artistico, pensato a beneficio dello spettatore e ispirato ad alcune idee allora dominanti, nel mondo sovietico. Come scrive Lena Corritore (2021a), ciò «sarebbe equivalso ad agire sulla coscienza dello spettatore, in maniera subliminale, inducendolo a desiderare dapprima il ritorno (nostalgia reazionaria) e poi l’avvento futuro (ideale progressista) di una struttura sociale, in cui sarebbero nuovamente annullate le distinzioni di classe».
L’arte, concepita in base a queste idee, dal regista viene definita “organica” poiché funziona per mezzo delle stesse leggi che regolano i fenomeni naturali.
«In un’opera d’arte organica – scrive Ejzenštejn – gli elementi che costituiscono l’insieme partecipano anche di ogni singolo componente. Una stessa legge percorre non solo il tutto e ciascuna delle sue parti, ma anche diversi piani rispetto ai quali il tutto si costituisce. Quali che siano tali piani, gli stessi principi vi si manifestano, di volta in volta, in modo specifico. Solo in questo caso si potrà parlare di organicità di un’opera, posto che si assuma il concetto di “organismo” nel senso in cui lo definisce Engels (1873-75) nella Dialettica della natura: “L’organismo è certamente l’unità superiore” (…). L’organicità dell’opera e il sentimento di organicità prodotto dall’opera insorgono quando la legge di costruzione dell’opera corrisponde alle leggi di strutturazione dei fenomeni della natura. (…) Ci troviamo di fronte, in questo caso, a un’opera d’arte – un’opera artificiale – costruita a partire dalle stesse leggi che strutturano i fenomeni non artificiali – i fenomeni “organici” della natura» (Ejzenštejn, 1945-47, pp. 14-15, corsivi nell’originale).
In tal modo l’opera d’arte può essere anche “efficace”, nella prassi sociale, perché riesce a esercitare un potere sulle emozioni.
L’altro importante autore psicoanalitico da cui Ejzenštejn venne profondamente influenzato fu, come accennato, Ferenczi, il prediletto fra gli allievi di Freud. Il regista, attratto dalle possibilità di regressione verso il pensiero primitivo, era rimasto molto colpito dalla sua opera Versuch einer Genitaltheorie (Ferenczi, 1924), poi nota come Thalassa. Ferenczi considerava l’atto sessuale al centro della sua “teoria della genitalità”, valutandolo come il tentativo di ristabilire l’unità perduta con il corpo materno. Questa unità veniva ritrovata, momentaneamente, nel coito. Egli inoltre era fermamente convinto che esistesse un solido parallelismo fra ontogenesi e filogenesi, secondo la “legge biogenetica fondamentale” di Haeckel (1874). Quindi sosteneva che il distacco del neonato dalla natura “acquatica” della vita intrauterina non avrebbe fatto altro che ricapitolare, a ogni nascita, quel processo per cui, nel remoto passato, i primi mammiferi si erano lentamente adattati alla vita terrestre, in seguito all’inaridirsi dei mari.
Ferenczi, nella sua teoria ontogenetica e filogenetica della genitalità, ipotizzava la possibilità di una traccia di psichismo inconscio risalente perfino al momento della separazione della materia organica dall’inorganica. Egli che, come Freud simpatizzava per l’evoluzionismo lamarckiano, interpretava il coito non solo come un tentativo allucinatorio e simbolico di ristabilire la situazione intrauterina fuggendo dal trauma della nascita, ma anche, filogeneticamente, come “regressione thalassale”; ovvero come il desiderio di ritornare verso l’oceano abbandonato in tempi antichi dai vertebrati acquatici che furono antenati dell’umanità. In ciò si differenziava molto dalla descrizione traumatica della nascita offerta da Rank (1924). Al termine del suo saggio, Ferenczi evidenziava un parallelismo fra il desiderio di un ritorno nel grembo materno e il concetto di pulsione di morte proposto qualche anno prima da Freud (1920), che avrebbe molto coinvolto Ejzenštejn.
Come ha scritto Lena Corritore (2021b):
«È questa la situazione originaria [the first spark], modello della legge del divenire dialettico e insieme emblema della sua concezione dell’arte e del montaggio, che il regista sintetizza nella serie dei disegni eXstasis [realizzati a Nuevo Laredo nel 1932; cfr. Somaini, 2011] e che sarebbe stata alla base della sua “estetica operativa”. (…) Il regista ritorna spesso alla tematica MLB [Mutterleibversenkung, cioè “sprofondamento nel ventre materno”] nella sua riflessione teorica, considerandone le diverse possibili sfaccettature: sia quando analizza i tratti dell’esistenza fetale di cui trova traccia nella storia delle arti, sia quando, richiamandosi anche lui alla “legge biogenetica fondamentale” di Haeckel [1874], si concentra su aspetti più direttamente legati a stadi primitivi nell’evoluzione delle specie viventi».
Per il regista, ancora una volta, il compito fondamentale (Grundproblem) dell’artista sul piano estetico avrebbe dovuto essere quello di riattivare, con le opere d’arte, queste sensazioni regressive rendendole capaci di produrre un coinvolgimento emotivo. Lo “sprofondamento nel grembo materno” (Mutterleibversenkung [MLB]), evocato in più declinazioni dagli autori psicoanalitici, veniva considerato, sul piano artistico, la forma di regressione più interessante e produttiva. In più occasioni Ejzenštejn manifestò l’idea che lo “sprofondamento” nell’estasi, di cui parlavano i mistici, non fosse altro che la sensazione di ritornare, “sprofondare” nell’utero materno. Egli dichiara, nelle Memorie, in “Monsieur, Madame et Bébé”: «Sullo sprofondamento nel grembo è stato scritto non poco (per esempio il dottor Alexander [1923] sul nirvana in Imago). Sul “venire alla luce” scrive meravigliosamente Rank [1924] in Das Trauma der Geburt (…).Ferenczi [1924] ha esposto tutto ciò nel Versuch einer Genitaltheorie e qui ha anche aggiunto la questione riguardante la tendenza alla morte. E anche il regresso attraverso le “forme” di natura animata fino allo stadio (…) inanimato!» (Ejzenštejn, 1946-47, pp. 370-371).
Ejzenštejn inoltre scrive, leggendo Ferenczi: «Faccio la conoscenza anche del nostro più comune antenato ai confini più bassi del passaggio dal mondo vegetale a quello animale. Dalla forma di pesce, la scienza lo considera l’ufficiale progenitore anche di quel primo livello dal quale ha inizio l’appassionante varietà dell’evoluzione, intuita da Darwin» (Ejzenštejn, 1946-47, p. 448). L’intento di Ejzenštejn, in senso generale, è sempre quello di approfondire il Grundproblem, ovvero il suo problema estetico fondamentale, pur con l’intento di comprendere le questioni relative all’evoluzione degli organi di senso.
Tra i promotori di questa ricerca, una presenza fondamentale fu quella di Lurija, tra i massimi esponenti della psicoanalisi in Russia, nei primi anni 1920. Racconta il regista: «Il mio abituale consigliere, amico e consulente in ogni materia di questo tipo, Aleksandr Romanovich Lurija, mi consigliò di leggermi il libretto di Goldschmidt (1922) Ascaris dove, in modo molto poetico e comprensibile e allo stesso tempo anche ponderato da un punto di vista scientifico, viene presentato l’affascinante quadro delle peripezie della formazione degli apparati perfetti del nostro organismo dai primissimi stadi e livelli di sviluppo» (Ejzenštejn 1946-47, pp. 448-449).
Secondo Mecacci (2011), «Ejzenštejn rappresentava, per Lurija, il richiamo al contesto della cultura moscovita impregnata di psicoanalisi, con personaggi di rilievo scomparsi negli anni del terrore e dei quali non si ebbe più notizia fino ai primi anni 1990, appunto… dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica» (p. 102). L’interesse di Lurija per il cinema, il teatro e le arti in genere era sostenuto, in quel periodo, dalla presenza della prima moglie, Vera Nikolaevna Blagovidova, attrice teatrale. Lurija ed Ejzenštejn, alla fine degli anni 1920, realizzarono delle prove sperimentali sull’immaginazione del movimento, utilizzando l’ipnosi. In questi esperimenti, a indurre l’ipnosi era Jurij V. Kannabych (1872-1939), esperto in questa tecnica. Kannabych in quel periodo era una figura importante nell’ambito della psichiatria ed era anche il presidente della Società psicoanalitica russa. Egli mantenne tale carica fino al 1930, quando la Società venne chiusa a causa della reazione stalinista. Già dal 1910, Kannabych aveva fondato a Krjukovo, nei pressi di Mosca, una clinica per le malattie nervose e mentali, dove veniva praticata sia la psicoterapia con tecniche psicoanalitiche sia l’ipnosi. Si trattava di una clinica rinomata, nella quale furono curati per disturbi psicologici diversi noti esponenti della cultura e dell’arte russa come i poeti Aleksandr Blok e Sergej Solovév, l’attore Michajl A. Cechov e il regista teatrale E.B. Vachtangov. Anche Zalkind era tra gli psicoterapeuti che lavoravano nella clinica. Kannabych fu anche il terapeuta di Adolf A. Ioffe, tra i massimi protagonisti della rivoluzione bolscevica, capo del Comitato rivoluzionario militare, intimo amico di Trotskij e capo dell’opposizione trotzkista. Ioffe si suicidò nel 1927, quando la sua fazione cominciò a essere attaccata e perseguitata. Precedentemente Ioffe era stato in analisi, a Vienna, con Alfred Adler e aveva poi continuato la terapia proprio con Kannabych. Con quest’ultimo Ejzenštejn effettuò diverse sedute di ipnosi per fronteggiare ripetuti stati depressivi, come li descrive anche Marie Seton (1952, p. 276). Proprio Trotskij e Ioffe furono i politici che maggiormente favorirono la diffusione della psicoanalisi in Russia. Essi la concepivano come un movimento di portata rivoluzionaria, utile alla causa della costruzione dell’uomo nuovo sovietico. Purtroppo, il favore accordato dai trotskisti alla psicoanalisi fu la principale causa dell’ostilità, nei confronti della medesima, registrata nella seconda metà degli anni 1920. Questa avversione si concretizzò nella chiusura della Società psicoanalitica russa e nello sbarramento rispetto a ogni istanza reale o ideale, relativa alla psicoanalisi, giungendo perfino all’eliminazione fisica di alcuni esponenti di rilievo del movimento psicoanalitico (Mecacci, 2011, p. 103). Questo intreccio di legami, che univa personalità come Kannabych, Zalkind, Lurija ed Ejzenštejn e che fu drasticamente soppresso, richiama molto lo spettro della liquidazione del trotskismo, negli anni della persecuzione stalinista.
Gli incontri e le discussioni fra Ejzenštejn e Lurija ebbero luogo fino alla morte del regista, nel febbraio del 1948. Sull’amicizia e sulla collaborazione fra i due, ha scritto la Homskaya (2001):
«Durante gli anni 1940 Lurija mantenne uno stretto contatto con il famoso regista cinematografico S.M. Ejzenštejn, che realizzò capolavori del cinema mondiale come La corazzata Potëmkin [1925] e Ivan il Terribile [1944]. Da quando si conobbero, negli anni 1920, Lurija ed Ejzenštejn condivisero un interesse comune per la psicologia dell’arte e gli aspetti psicologici dell’espressività artistica. Ejzenštejn era molto interessato al fenomeno del mnemonista Solomon Šereševskij, studiato da Lurija. Nel 1929, tramite una segnalazione di Lurija, Ejzenštejn fu presentato a Kurt Lewin, con il quale discusse il problema dell’espressività artistica. Alla fine degli anni 1920, Lurija organizzò un’associazione internazionale di cinema scientifico e creò un laboratorio, presso l’Istituto di cinematografia di Mosca per eseguire vari tipi di riprese cinematografiche a fini scientifici. Negli anni 1930, Lurija ed Ejzenštejn continuarono a scambiarsi lettere. La loro corrispondenza continuò durante il periodo di Kharkov e durante la guerra. Dopo la guerra, e fino alla morte improvvisa di Ejzenštejn nel 1948, spesso si incontravano, condividevano libri e discutevano» (p. 39).
Come già accennato, nel 1940 la collaborazione fra i due portò Ejzenštejn a redigere, su invito di Lurija, un progetto di seminario didattico sulla “Psicologia dell’arte” per gli allievi dell’amico. Il regista continuò a prendere appunti sull’argomento fino al novembre 1947. Probabilmente, per contribuire a queste riflessioni, Lurija diede a Ejzenštejn il dattiloscritto della Psicologia dell’arte di Vygotskij (1925). Le lezioni non furono poi tenute a causa della morte di Ejzenštejn, avvenuta nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1948. Il testo di Vygotskij, con a margine annotazioni a penna dell’autore, rimase conservato nell’archivio personale di Ejzenštejn e fu scoperto alla fine degli anni 1960 da Naum I. Kleiman. Il libro, che utilizza diversi concetti psicoanalitici e contiene varie decine di citazioni tratte da Freud e da psicoanalisti della prima generazione, fu poi pubblicato nel 1965 in un’edizione contenente un importante commento critico del linguista Vjačeslav V. Ivanov. Quest’ultimo, in quella e in altre occasioni, evidenziò efficacemente i fertili collegamenti fra la psicologia vygotskiana e l’estetica eizejnsteniana (cfr. Ivanov, 1976, 1977).
Lurija per tutta la vita rivendicò la sua discendenza teorica dal pensiero di Vygotskij, ed entrambi sostennero la psicoanalisi finché fu possibile senza essere perseguitati politicamente e correre rischi addirittura fisici. In particolare, nell’opera complessiva di Lurija l’impronta del pensiero psicoanalitico appare sempre presente. Basti pensare alla prospettiva idiografica, alla valorizzazione dei casi clinici singoli che Lurija, peraltro considerato il fondatore della neuropsicologia contemporanea, mai trascurò, pur perseguendo sempre l’aspirazione alla scientificità.
Nel dicembre 1930 Ejzenštejn partì per un lungo viaggio che lo avrebbe portato prima negli Stati Uniti e poi in Messico. Da questo momento in poi la sua produzione teorica e cinematografica subì una decisiva svolta verso quella dimensione che egli stesso, nei suoi scritti degli anni 1930-40, volle indicare con il termine “prelogico” o “pralogico” (cfr. Kleiman, 1991, pp. 277-290). Nel viaggio messicano Ejzenštejn osservò come, nella cultura di questo Paese, sopravvivessero evidenti tracce di culture precedenti a quella cattolica coloniale. I rituali, dalle pratiche della comunità dei danzantes ai pellegrini che si flagellavano nelle processioni in onore della Vergine di Guadalupe, producevano nei partecipanti degli stati di primitiva estasi. Nel capitolo di Metod (Ejzenštejn, 2002) intitolato “Slancio per librarsi”, il Messico viene infatti descritto da Ejzenštejn come il luogo «most ecstatic della creazione» (Somaini, 2011, p. 262). Un luogo geografico e mentale dove il regista, fantasticamente, si lascia andare alla sensualità libera e alla riscoperta dei desideri e delle pulsioni nella discesa regressiva verso gli strati più profondi della propria coscienza.
Inoltre, dai disegni di Ejzenštejn del periodo messicano, ampiamente riprodotti nel citato libro di Somaini (2011), si desume come l’aspetto regressivo evocato dal regista fosse fortemente impregnato dall’immaginario della sessualità. Le valutazioni sull’orientamento sessuale di Ejzenštejn sono legate soprattutto a quelle circostanze. In tempi relativamente recenti Peter Greenaway, nel film Eisenstein in Messico, del 2015, ha collocato la prima esperienza omosessuale del regista nel contesto messicano, ma è la proposta di un autore. Seton (1952, pp. 256-257) riporta come Upton Sinclair, romanziere e produttore di Que viva Mexico!, contrariato per le rinnovate richieste di denaro di Ejzenštejn, dopo aver interrotto i finanziamenti lo descrivesse come “trotskista e omosessuale”, nonché una “sanguisuga”. Poche righe dopo viene riferito il parere di Augustin Aragon Leiva, consulente proposto dal governo messicano a Ejzenštejn, che contestava le contumelie di Sinclair e del suo inviato Hunter Kimbrough, accusandoli di “ignobile comportamento” verso il regista. Poiché l’obiettivo di questo lavoro non è valutare le varie opinioni sull’omosessualità di Ejzenštejn o la descrizione psicobiografica del personaggio, approfondire tali aspetti in quest’ambito non è rilevante. Invece, può essere utile tener presente che Ejzenštejn, come molti altri artisti e intellettuali della sua epoca, prescindendo dall’orientamento sessuale fu attratto dalla psicoanalisi anche per la sua natura illuminista, che trascendeva il conformismo della morale allora corrente.
La psicoanalisi, storicamente, è stata la prima disciplina scientifica che ha valutato gli aspetti inconsci della sessualità. Già nei Tre saggi sulla teoria sessuale, tradotti in Russia nel 1911 e diffusi nella intelligencija anche in lingua originale, Freud (1905) afferma che la psicoanalisi non intende «separare gli omosessuali come gruppo di specie particolare dalle altre persone (…), tutte le persone sono capaci di scegliere un oggetto sessuale dello stesso sesso» (Freud 1905, p. 460, nota). Gli intellettuali sovietici progressisti, compreso Ejzenštejn, apprezzarono lo spostamento dell’omosessualità dall’area di una morale sociale persecutoria a una dimensione psicologica e comportamentale, da esaminare in modo razionale e senza pregiudizi.
Durante il viaggio messicano, Ejzenštejn recuperò e attualizzò anche il disegno; una pratica che aveva sospeso otto anni prima, nel momento della transizione dal teatro al cinema. Inoltre sperimentò un’inedita forma di “scrittura automatica”, strumento associato alle modalità espressive del surrealismo, che gli avrebbe consentito di riportare alla luce quel che di più intimo e disinibito gli aveva suggerito il contatto con la storia e la cultura del Messico.
Tutto ciò confermava a Ejzenštejn l’idea, congrua con la psicoanalisi, che l’efficacia dell’arte fosse legata alla regressione verso un pensiero prelogico. Come ha scritto Bordwell (1993), «la sua riflessione sul pensiero prelogico esprime i suoi duraturi legami con Vygotskij e Lurija, che studiavano i bambini, le culture precedenti alla comparsa della scrittura e pazienti con danni cerebrali; tutto ciò alla ricerca di processi cognitivi in contrasto con il ragionamento deduttivo» (p. 176). Per questi motivi, tale pensiero poteva risultare utile e opportuno nel lavoro artistico. Di ciò si sarebbero ritrovate tracce nella produzione teorica della seconda metà degli anni 1930 e dell’inizio degli anni 1940. Il tema della regressione compare nel saggio del 1935 La forma cinematografica: problemi nuovi, in Teoria generale del montaggio scritto fra il 1935 e il 1937, e nei testi previsti per Metod e La natura non indifferente, redatti a metà degli anni 1940.
Il collegamento fra regressione intrauterina, estasi e morte, elaborato a partire dalle idee psicoanalitiche, è un tema che emerge in diverse opere di Ejzenštejn, in particolare in alcuni dei disegni messicani, carichi di simboli di sofferenza e morte. Inoltre, confrontando il suo film Ivan il Terribile (1944) con il romanzo L’idiota di Dostoevskij (1869) egli, sempre trattando il tema della regressione, si riferisce all’estasi come alla replica di uno stato di beatitudine che coinciderebbe con la “ripetizione dello stato del concepimento”. Ejzenštejn individua, nelle due opere, quella cinematografica e quella letteraria, il medesimo desiderio di far ritorno alla “matrice”, allo stato originario, che viene identificato con lo stato uterino prenatale. «Qui l’embrione si sta sviluppando in una dimensione di completa autarchia, fermo e chiuso in se stesso, libero da tutte le sensazioni provenienti da influenze esteriori, ivi comprese le leggi universali dell’attrazione e del sentimento di pesantezza: questo stato è quello della fluttuazione nell’elemento liquido» (Ejzenštejn, 2002, vol. II, p. 302).
Questi concetti, oltre a evocare le idee già accennate di Rank e Ferenczi, aprono un collegamento con la teoria freudiana del narcisismo. Per essa, durante la vita intrauterina e nel neonato, la libido tende a dirigersi verso l’individuo, escludendo il mondo esterno. In Introduzione al narcisismo Freud (1914) descrive le caratteristiche di questo fenomeno. In seguito, soprattutto elaborando la seconda topica, ovvero il modello strutturale contenente le tre istanze Es, Io e Super-Io, Freud (1922) sviluppa le sue idee in quest’ambito, e designa, col termine di “narcisismo primario”, un primo stadio della vita, antecedente alla costituzione dell’Io, il cui archetipo sarebbe la vita intrauterina. Ciò ha il significato di un investimento della libido del soggetto su se stesso, ovvero di un mancato investimento sull’oggetto, e contemporaneamente si constata la carenza di una separazione tra soggetto e mondo esterno.
Ejzenštejn è interessato a questa condizione privilegiata e la fa coincidere non solo con la prima fase di vita dell’individuo, ma anche, antropologicamente e biologicamente, con la tappa più primitiva di una ideale “evoluzione della specie”. Sul piano filosofico ed estetico, è intenzione di Ejzenštejn spingere il fruitore dell’opera d’arte, compresa quella cinematografica, verso l’unità dialettica degli opposti, verso un’arte che sia emozionale e intellettuale insieme, verso un pensiero che sia, al contempo, logico e prelogico. Quest’arte rivendica la sintesi degli elementi che la mentalità tradizionale, permeata di logica e razionalità, si ostina a mantenere distinti. Come contributo personale di Ejzenštejn all’antropologia si può considerare l’idea che l’essenza stessa dell’individuo sia fatta da queste due opposte tendenze, che fanno scontrare la volontà cosciente con una non-volontà irrazionale e regressiva.
Riecheggiano in questa proposta concettuale le idee di Freud (1920) che, in Al di là del principio del piacere, tradotto in russo nel 1925, aveva indicato l’istinto di conservazione e più in generale le forze creative della persona come Eros, mentre le spinte regressive verso la distruzione e la disaggregazione erano state indicate col termine Thanatos. Nell’ambito di quest’opera, Freud elabora la nozione di “coazione a ripetere”, fenomeno per cui il soggetto si pone, attivamente e ripetutamente, in situazioni conflittuali e penose. Nell’interpretazione freudiana, la coazione a ripetere è considerata un fattore autonomo, inspiegabile utilizzando solo il principio del piacere e il principio di realtà. Essa è attribuita fondamentalmente a una caratteristica generale delle pulsioni, ovvero al loro carattere conservatore. Le pulsioni sono conservatrici, nel senso che tendono a ripristinare un loro stato anteriore. Questo percorso all’indietro conduce l’individuo alla morte, secondo un processo per cui la materia inanimata, divenuta poi vivente, tenderebbe progressivamente a ristabilire lo stato inanimato. Freud chiama questa tendenza “pulsione di morte”, o Thanatos, cui si opporrebbe la “pulsione di vita”, o Eros, anch’essa biologicamente fondata, in questo caso sulla sessualità. È opportuno qui ricordare che nel 1925 l’introduzione alla traduzione russa del volume di Freud del 1920 Al di là del principio del piacere era stata fatta, unitamente, da Vygotskij e Lurija.
Ejzenštejn appare in sintonia con le idee avanzate da Freud e, accettando la compresenza di due forze che agiscono in direzioni opposte, afferma che il lavoro creativo dell’arte si deve fondare su un duplice movimento. Da una parte, l’opera d’arte deve coinvolgere la spinta regressiva e viscerale; dall’altra parte, deve spingere all’innalzamento verso gli strati superiori della coscienza, proprio per contrastare la regressione che di per sé è disgregante. In ciò è presente l’idea che non esistano stadi separati di sviluppo, individuale e sociale, organizzati secondo un percorso lineare, verso l’alto. Questa idea sembra anticipare, per certi versi, il concetto di “regressione al servizio dell’Io” che Kris (1934) formulerà pochi anni dopo all’interno della tematica della creatività (Kris era originariamente uno storico dell’arte), secondo cui l’Io, a partire dal processo secondario, può raggiungere livelli di funzionamento superiore grazie alla capacità di regredire e di attingere alla maggiore ricchezza del processo primario.
L’idea che le forze regressive, individuali e sociali restino presenti, convivendo con le spinte allo sviluppo era, per Ejzenštejn, politicamente problematica. Come ha scritto Somaini (2016), «l’importanza attribuita da Ejzenštejn a tutti questi “percorsi di regressione” verso condizioni organiche, psicologiche o sociali caratterizzate per mancanza di differenziazione era in netto contrasto con un’ideologia di Stato che era incentrata sulla celebrazione delle conquiste di un socialismo in avanti, che lottava contro ogni forma di resistenza orientata all’indietro. Ejzenštejn era ben consapevole di questo contrasto» (p. 44). L’ideologia staliniana imputava ai “residui del passato”, individuali e sociali, le responsabilità di tutti gli insuccessi, personali e collettivi, nella spinta trasformativa verso il nuovo. La società sovietica si proponeva di formare un “uomo nuovo” in un “mondo nuovo”.
Quando il regista nel 1935 parlò nella sede ufficiale della “Conferenza dei lavoratori della cinematografia sovietica”, le sue posizioni ebbero ricadute che superarono il dibattito sull’estetica e sull’arte. Le sue idee apparvero come una critica all’impianto teorico del regime. Anche i collegamenti indiretti con la teoria psicoanalitica erano problematici, in quanto la psicoanalisi in Unione Sovietica, come si è illustrato, era da tempo apertamente osteggiata. Particolarmente critica risultava l’idea che nulla, nella vita della coscienza umana, possa essere definitivamente superato e dimenticato. Freud (1929) ne Il disagio della civiltà afferma che «nella vita psichica nulla può perire, tutto in qualche modo si conserva e, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, può nuovamente venir portato alla luce» (p. 204). Per Ejzenštejn la tendenza alla regressione è un dato di fatto che emerge in vari contesti della sua opera. Così funzionano il lavoro della coscienza e il percorso che porta alla composizione di una opera d’arte.
Ne La natura non indifferente (Ejzenštejn, 1945-47), con un termine di origine psicoanalitica egli definisce “introspettivo” questo movimento che permette all’individuo di “sprofondare” in sé. Si tratta di sentimenti soggettivi; ma le opere d’arte e il cinema, in particolare, sono in grado di riproporre questo cammino a ritroso attraverso le varie tappe di sviluppo della coscienza. Ne “Il male volteriano”, scritto fra il 1942 e il 1946, afferma: «Ciò significa che il “metodo” del mio “cinema intellettuale” si basa sul fatto che dalla forma d’espressione della coscienza più sviluppata ci si muove (a ritroso) alla forma di coscienza più primitiva (…), ed ecco che mi assale una preoccupazione, una supposizione. E se questo trasferimento della formula logica dalle forme dell’attuale livello della nostra coscienza (alla rovescia!) alla forma della coscienza e del pensiero più primitivo fosse anche il segreto dell’arte in generale (e non solo del mio “cinema intellettuale”)?» (Ejzenštejn, in: Bertetto, 1975, pp. 223-224).
Ejzenštejn percepisce questa tendenza alla regressione come un fenomeno universale, presente in ciascuno degli ambiti di cui di volta in volta si è occupato. D’altra parte essa è coerente con la filosofia dialettica argomentata da Engels (1873-75) nella Dialettica della natura, anzi ne costituisce una parte essenziale. Ogni movimento è sempre un doppio movimento, anche il montaggio cinematografico funziona in questo modo. Esso da una parte scompone ciò che è dato cinematograficamente, riducendolo a forme più elementari, dall’altra lo ricompone, a un livello di senso, emotivo ed affettivo, più elevato.
In un brano della Teoria generale del montaggio (Ejzenštejn, 1935-37) vengono ripresi metaforicamente alcuni argomenti presenti nell’opera di Freud (1912-13) Totem e tabù. Come il corpo del capo tribù, dopo essere stato dilaniato, si ricostituisce idealmente nel rito collettivo della comunità, così il montaggio porta prima alla scomposizione dell’esistente e poi verso la sua ricostituzione in una nuova unità. Attraverso il montaggio, il cinema s’impadronisce della possibilità di riconfigurare la realtà in senso linguistico.
In Ejzenštejn il linguaggio delle immagini, come viene organizzato nella teoria del montaggio, è in sintonia con il concetto di “monologo interno” appartenente a Vygotskij. Il cinema funziona in virtù di regole che non appartengono a quella razionalità e a quella logica con cui si costruisce il linguaggio esteriore, nelle sue forme orali e scritte.
Molte idee psicoanalitiche, assieme a concetti vygotskiani, si riscontrano in tutta la teoria del montaggio di Ejzenštejn. Fin dai suoi primi contributi sull’estetica del cinema, serpeggia il concetto freudiano di “condensazione” (cfr. Cervini, 2010, pp. 140-141). Il regista, in sostanza, ritiene che una immagine sia lo strumento, più potente d’ogni altro, per “comprendere = avere, afferrare” i fenomeni e gli oggetti. L’immagine nel lavoro della creazione artistica consente di ricondurre l’eterogeneità dei vari elementi a una visione «condensata» (Ejzenštejn, 1986, p. 40). Nel pensiero freudiano il concetto di “condensazione” illustra uno dei modi essenziali del funzionamento dei processi inconsci. Una rappresentazione unica delinea, da sola, varie catene associative di cui costituisce il punto d’intersezione. Sul piano economico essa è quindi investita dalla somma delle energie inerenti a tali diverse catene. La condensazione è attiva nei sintomi e in generale nelle varie formazioni dell’inconscio, ma è stata messa in evidenza soprattutto nel sogno, dove infatti il contenuto manifesto è laconico e condensato rispetto al contenuto latente e ne costituisce una traduzione abbreviata. La condensazione non va però assimilata a un riassunto; se ogni elemento manifesto è determinato da più significati latenti, inversamente ciascuno di tali significati può ritrovarsi in più elementi.
Ejzenštejn (1940) ne Il montaggio verticale introduce la possibilità di un montaggio polifonico dove varie componenti agiscano «creando un sentimento complesso del pezzo nell’insieme (…). Per la coordinazione con la musica, questo sentimento generale ha un significato decisivo perché è legato direttamente al senso della totalità dell’immagine, sia musicale sia figurativa» (Ejzenštejn, 1986, p. 134, corsivi nell’originale). Attraverso varie rappresentazioni simultanee, prime fra tutte quella visiva e quella sonora, emerge il senso autentico della immagine globale, capace di trasmettere, in pieno, il contenuto complessivo dell’opera. In questa immagine ideale si condensano e si combinano verticalmente, cioè simultaneamente, pezzi diversi della rappresentazione.
A questo proposito è interessante ricordare che il lavoro del montaggio cinematografico, per un regista al tempo di Ejzenštejn, veniva fatto per mezzo di una apparecchiatura chiamata moviola. Attualmente, la moviola è sempre usata per il montaggio della pellicola. Tuttavia, una notevole parte del cinema contemporaneo viene girato con strumenti elettronici; in questo caso il montaggio viene effettuato per mezzo del computer. Sulla moviola, che permette di visionare, tagliare e reincollare fra loro parti diverse di un film, la pellicola avvolta viene appoggiata orizzontalmente e scorre sempre, avanti o indietro, in modo assolutamente orizzontale. Parlare di montaggio verticale significa introdurre, per contrasto, un termine inaspettato e originale, che ha il valore di una metafora atta a descrivere una singolare operazione primariamente mentale, che va poi realizzata con la pellicola e il sonoro.
Il montaggio verticale delle diverse riprese porta alla creazione di idee non presenti nelle stesse riprese considerate singolarmente. Non si tratta di semplici “aggiunte”, ma di sovrapposizioni secondo un criterio tendente alla simultaneità. L’idea di fondo è che, in virtù di tale simultaneità, l’emozione derivante dal pezzo successivo si sovrapponga alla traccia percettiva lasciata da quello precedente. In questa proposta si riconosce, oltre all’influenza del concetto freudiano di condensazione, la nozione vygotskiana di “agglutinazione”, propria del linguaggio interno (cfr. Vygotskij, 1934a, cap. 7).
Proseguendo nell’esame dei concetti provenienti dal pensiero freudiano e riscontrabili nelle teorizzazioni e nel lavoro di Ejzenštejn, si pone all’attenzione anche l’idea di “spostamento”. In ambito psicoanalitico, con il termine “spostamento” si indica il trasferimento dell’interesse e dell’intensità di una rappresentazione ad altre rappresentazioni, originariamente meno intense, collegate alla prima da una catena associativa. Tale fenomeno è individuabile particolarmente nell’analisi dei sogni, ma si riscontra anche nella formazione dei sintomi e in genere in ogni formazione dell’inconscio. In senso psicoanalitico, sul piano descrittivo economico si ipotizza che l’energia di un investimento possa staccarsi dalle associazioni e scorrere lungo vie associative. Il motivo di questo processo è legato alla rappresentabilità di determinati elementi interni alla psiche. In alcuni casi, solo uno spostamento, così inteso, può rendere rappresentabili, attraverso concrete immagini oniriche, le emozioni e le idee del sogno.
Ejzenštejn aveva affrontato il tema, in chiave ovviamente analogica, in alcuni scritti giovanili, come “Fuori campo” e “Drammaturgia della forma cinematografica” (cfr. Ejzenštejn, 1986). Fin d’allora la sua riflessione si concentrava sulla possibilità di rappresentare cinematograficamente dei concetti astratti e aveva sostenuto che un concetto astratto può essere rappresentato attraverso lo spostamento su una immagine concreta. In senso psicoanalitico, sul piano formale ciò può essere descritto come una regressione, che infatti, rispetto alla strutturazione e alla differenziazione, designa il passaggio a modi di espressione di livello più semplice dal punto di vista della complessità. Nel sogno, la regressione trasforma le strutture motivazionali delle emozioni e le architetture dei pensieri in immagini oniriche. Il sogno stesso è una regressione che rianima nel sognatore le spinte pulsionali primitive, opponendosi al movimento progressivo verso la coscienza. Secondo Freud (1899), inoltre, il sogno offre una finestra sull’infanzia filogenetica dell’umanità: «Si è indotti a sperare di arrivare, con l’analisi dei sogni, a conoscere l’eredità arcaica dell’uomo, a riconoscere ciò che è in lui psichicamente innato» (p. 501). Il ricorso al pensiero sensibile delle immagini quindi non caratterizzerebbe solo i sogni e l’infanzia di ogni individuo. Sul piano filogenetico, l’umanità intera ai suoi primordi avrebbe fatto uso di questo tipo di pensiero. In un secondo momento, scrive Ejzenštejn riecheggiando Vygotskij, «il pensiero per immagini, che è una forma primitiva del pensiero, evolve in pensiero concettuale» (Ejzenštejn, 1986, p. 5). Per una riflessione sul cinema è interessante osservare, come riporta Cimatti (2007, p. 290) a proposito di Vygotskij, che alcuni aspetti mentali, ad esempio la percezione dello spazio, non dipenderebbero dalle categorie linguistiche. Tuttavia, afferma sempre Cimatti (2014), «sulla biologia dell’animale umano Vygotskij non si concentra ulteriormente, proprio perché quella biologia – di per sé – è una condizione necessaria ma non sufficiente a formare un individuo umano (…). Accanto e insieme allo sviluppo biologico, quello in cui opera la selezione naturale, si affianca, nel caso dell’animale umano, quello culturale (…). Non si tratta di aggiungere, dopo una prima fase di sviluppo esclusivamente biologica, una sorta di completamento o aggiunta culturale. Per Vygotskij, fin dall’inizio, lo sviluppo organico si intreccia a quello socio-culturale, che quindi è “parte organica” dello sviluppo dell’individuo» (p. 260).
Va ricordato che, nella prospettiva dello psicologo russo, pensiero e linguaggio non sono legati fra loro da un legame originario, ma sono due entità separate che s’incontrano nel processo dello sviluppo storico della coscienza umana, giungendo nella mente individuale. Riguardo all’immaginazione creativa, Vygotskij ritiene che essa abbia bisogno di pensieri e concetti evoluti; quindi è minore nel bambino per la sua minor esperienza pregressa. La massima immaginazione creativa appartiene all’adulto che, in base alla sua esperienza personale, sociale e culturale, produce nuovi oggetti e pensieri, utilizzabili dagli altri esseri umani. Nel processo creativo, la mente si svincola dalla realtà e colloca le immagini in una dimensione interna autonoma. Come scrive Mecacci (2017), «anche le opere d’arte, dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla scultura, sono il risultato dell’immaginazione del loro creatore. Mentre i prodotti della tecnologia si collocano nella realtà esterna in cui vivono gli esseri umani, le immagini artistiche, con i loro significati e le loro risonanze emozionali, occupano gli spazi interni della mente» (p. 102).
Per il suo interesse verso la filogenesi, come già accennato, il regista pensa che l’umanità, dalle sue origini a oggi, abbia compiuto un tragitto analogo a quello che ogni individuo compie passando dall’infanzia alla maturità, progredendo da un primitivo pensiero per immagini verso l’avvicinamento al concetto, ovvero alla generalizzazione raziocinante. Dalla prospettiva psicoanalitica, il forte interesse per il fenomeno della regressione va collocato in tale contesto. Tramite la regressione e in varie forme, ovvero il sogno e la nevrosi per Freud, ma anche l’arte per Ejzenštejn, gli stati più elementari della psiche, propri dell’umanità al suo sorgere e tipici delle connotazioni inconsce, possono manifestarsi anche ai livelli più alti dello sviluppo psichico. Le stesse cose dirà Kris. Tutto ciò riguarda la “questione fondamentale” che Ejzenštejn vuole esaminare quando inizia a scrivere Metod. Egli si chiede qual è l’origine della creatività e quali sono le qualità che consentono all’individuo di generare una capacità espressiva, non solo razionale, ma anche emotivamente carica, che prenda il nome di Arte.
È anche opportuno ricordare che il rapporto concettuale di Ejzenštejn con la psicoanalisi non fu certamente lineare e privo di conflitti. Anzi, nell’ultima parte della sua vita avanzò alcune critiche alla teoria freudiana, non accettando l’idea di un conflitto “violento” fra strati diversi della psiche, inconciliabili fra loro. Ejzenštejn è convinto che sia opportuno pensare alla vita complessa della coscienza in termini di unità e totalità. Quando questa correlazione fra i diversi strati, superiori e inferiori, della coscienza non funziona, ciò è dovuto a un ordine anormale, a qualcosa di patologico. Scrive: «È di un certo interesse il fatto che questo tipo di approccio, sviluppatosi come riflesso di un ordine anormale dei fatti sociali, risulti convincente solo nel caso in cui si trovi di fronte a qualcosa di patologico, organicamente anormale come un caso clinico» (Ejzenštejn, 2002, vol. I, p. 180).
La psicoanalisi farebbe fatica a entrare “nel campo proprio delle immagini”. L’unità dinamica, fra gli strati più primitivi della psiche e quelli più elevati, è la vera idea fondamentale di Ejzenštejn che si colloca, nei termini filosofici della dialettica, come “sintesi”. Essa avrebbe dovuto trovare nell’arte la sua manifestazione più alta e, contemporaneamente, sul piano storico e politico si sarebbe dovuta concretizzare nella costruzione della società socialista. Questo entusiasmo del regista verso la dimensione sociale e politica lo rese particolarmente sensibile alla cautela con cui la psicoanalisi allora si avvicinava a tali fenomeni; anzi, in tal senso egli considerò la psicoanalisi non pienamente adeguata: «Tale insufficienza dipende anzitutto dal fatto che una posizione come quella freudiana, presupponendo uno sviluppo sociale anormale, senza per di più manifestare la volontà di superarlo, doveva finire per interpretare in modo errato alcuni fenomeni» (Ejzenštejn, 2002, vol. I, p. 181).
In senso generale, mentre appare chiaro che la psicoanalisi fu una delle realtà intellettuali che influenzarono molto Ejzenštejn, non è possibile catalogare il regista come un suo adepto compiuto. D’altra parte la psicoanalisi, in Russia e ovunque, influenzò personaggi della cultura e alimentò il dibattito scientifico in molti modi. È qui appropriato ricordare la nota disputa fra Piaget e Vygotskij sulla genesi del linguaggio nel bambino, non solo perché coinvolse lo psicologo amico di Ejzenštejn ma perché in essa troviamo un ulteriore e inaspettato segnale della forte presenza del pensiero psicoanalitico in Unione Sovietica, sùbito dopo la rivoluzione d’ottobre. Non è possibile qui approfondire la complessità del dibattito che intervenne fra i due. Va comunque ricordato che entrambi sostennero la comparsa di un linguaggio egocentrico nel bambino, attribuendogli però qualità differenti. Le diverse opinioni fra i due pensatori emergono in più contesti (cfr. Haenen, Schrijnemakers & Stufkens, 2003, p. 251). Secondo Piaget, il linguaggio del fanciullo è originariamente “egocentrico”, senza indicazioni di esigenze comunicative. Le forme di questo linguaggio sono diverse. La condizione necessaria per passare dal linguaggio “egocentrico” a quello “socializzato” è costituita dallo sviluppo delle strutture del pensiero, il quale nasce dall’azione e si realizza come interiorizzazione dell’azione nelle operazioni intellettuali. Il linguaggio ha una funzione ausiliaria in questo processo, offrendo la possibilità di un sempre maggior distanziamento dalla concretezza del reale e presentando la possibilità di organizzare delle strutture logiche preesistenti in forme più rigorosamente codificate.
Secondo la proposta di Vygotskij, la funzione originaria del linguaggio, sia nei bambini sia negli adulti, è la comunicazione. Di conseguenza, anche il linguaggio del bambino è prima di tutto sociale. Esso non deriva dal pensiero e non si pone, originariamente, come strumento. Le linee di sviluppo del pensiero e del linguaggio, concepite all’inizio come separate o parallele, nel corso della maturazione si incontrano. A quel punto, il pensiero diventa verbale e il linguaggio razionale. Il linguaggio egocentrico è il luogo di incontro e di interrelazione dell’originaria funzione comunicativa del linguaggio con quella strumentale del pensiero. Per Vygotskij, la mente del bambino è socializzata dal linguaggio, e lo sviluppo del linguaggio egocentrico costituisce un presupposto evolutivo per la pianificazione del comportamento. Seguendo questa prospettiva, il linguaggio egocentrico non scompare mai del tutto, ma diviene uno strumento del pensiero che è presente, nelle dinamiche mentali, come forma silente del linguaggio esterno. Evidenzia Mecacci (2017) che «mentre gli strumenti materiali riguardano l’attività che un essere umano svolge rispetto al mondo esterno, gli strumenti psicologici sono relativi all’attività svolta all’interno della mente stessa» (pp. 47-48, corsivi nell’originale). Tra gli esempi fatti da Vygotskij di tali strumenti e dei loro sistemi complessi si trovano il linguaggio, il calcolo, la scrittura e le opere d’arte. L’arte, dunque, anche nella concretezza dei prodotti artistici che vengono realizzati, è considerata uno degli strumenti psicologici dell’essere umano.
Sul piano storico, Etkind (1993, cap. 5), seguendo una linea concettuale certamente poco diffusa, sostiene che sia Vygotskij sia Piaget siano stati profondamente influenzati dall’opera di Sabina Spielrein (la famosa paziente di Jung). La Spielrein, membro della Società psicoanalitica di Mosca, da tempo si era dedicata allo studio della psicologia infantile nella prospettiva della psicoanalisi (aveva anche lavorato all’asilo psicoanalitico sperimentale di Mosca fondato da Vera Schmidt [1924], l’“asilo bianco”, in cui pare fosse stato anche il figlio di Stalin, Vasilij). «Vygotskij attribuiva importanza a quei fattori emotivi, nella comunicazione di un bambino con i suoi genitori, che Piaget era incline a ignorare. La proposta di Vygotskij (…) in sostanza proseguiva l’approccio delineato dalla Spielrein. Vygotsky volle evidenziare il suo contributo in qualità di “marxista”; ma alla fine le sue idee si avvicinarono molto di più alla psicoanalisi che al marxismo. Geneticamente, la teoria vygotskiana è più connessa alla comprensione freudiana dei ruoli dei genitori che ai concetti, estremamente politicizzati, relativi allo studio marxista dell’ambiente» (Etkind, 1993, pp. 174-175). Riguardo al collegamento di Sabina Spielrein con Piaget e Vygotskij hanno scritto, recentemente, Cooper-White & Brock Kelcourse (2019, p. 156) descrivendo come lo psicologo svizzero abbia svolto, per circa otto mesi, un trattamento psicoanalitico con la Spielrein. Peraltro, sempre in tempi relativamente recenti, Wilson & Weinstein (1992) hanno tentato una lettura psicoanalitica delle idee di Vygotskij, anche sul piano clinico.
Non appartiene a questo contesto l’opportunità di approfondire le caratteristiche psicologiche del linguaggio egocentrico e della sua evoluzione, indicata da Vygotskij nel “linguaggio interno”. Va però sottolineato che tutta la teoria del montaggio cinematografico di Ejzenštejn, dov’egli propone il concetto di “monologo interno” per spiegare il lavoro della regia, è basata sulle idee vygotskijane relative appunto al linguaggio interno. Dal punto di vista psicoanalitico, il richiamo al linguaggio interno è importante perché si tratta di una dimensione del pensiero prossima al territorio degli affetti e conseguentemente delle motivazioni che da essi discendono.
Il linguaggio interno è un processo psichico arcaico e corrisponde allo stadio del pensiero figurativo-sensoriale: «Esso consente la creazione delle forme artistiche, impiegando procedimenti concettuali fondati sulla sensazione e sull’immagine: tali procedimenti (…) si avvicinano ai criteri mentali utilizzati dai bambini e dai popoli primitivi» (Angelini, 1992, p. 152). Ciò, tra l’altro, può giustificare la deformazione delle proporzioni effettuata in alcune delle produzioni artistiche coerenti con questa modalità arcaica.
Ejzenštejn, sulla base delle conoscenze psicologiche acquisite con la sua ricerca e in virtù delle frequentazioni intellettuali con esponenti del mondo psicoanalitico di allora, come Sachs, Rank, Ferenczi, Lurija e Vygotskij, ipotizza, come si è indicato, che l’arte rappresenti una regressione psichica artificiale verso forme di pensiero evolutivamente e antropologicamente primitive. In questa prospettiva, spinto da grande curiosità e brama intellettuale, si interessò anche all’ipnosi. Nella Teoria generale del montaggio, del 1935-37, accosta alla percezione artistica lo stato ipnotico, in cui si verifica appunto una regressione ipnotica. Scrive infatti:
«L’ipnosi consiste nella stessa cosa e in particolare nel fatto che si trova il modo di neutralizzare temporaneamente gli “strati superiori” della coscienza (…). L’ipnotizzato si trova, in tal modo, in uno stato di completa soggezione a leggi del pensiero e del comportamento che, pur dettate dall’apparato mentale, agiscono indipendentemente dai centri superiori. Anatomicamente, si tratta del comportamento della mente in condizioni di esclusione dei lobi frontali del cervello. Ontogeneticamente, si tratta del comportamento che precede lo sviluppo di questi lobi, all’inizio del loro funzionamento (il pensiero infantile). Filogeneticamente, si tratta del comportamento che precede l’elaborazione storica del pensiero logico-formale che ha richiesto un’evoluzione piuttosto lunga e travagliata di questi organi della mente. Patologicamente, si tratta di una regressione permanente, prolungata o sporadica, causata da una malattia o da un trauma subìto durante gli stadi iniziali dello sviluppo mentale. Il tratto distintivo di questo processo, nell’ambito dell’arte, sarà sempre la sua relatività, o meglio il suo agire contemporaneamente su due piani: sia la regressione fino al livello in cui sono possibili i fenomeni propri di questo stadio, sia la conservazione del livello proprio della coscienza» (Ejzenštejn, 1935-37, p. 148, corsivi nell’originale).
Secondo il regista, il fenomeno della regressione, di derivazione psicoanalitica, è presente anche nel pensiero religioso, magico e nelle alterazioni prodotte dalle droghe. D’altra parte, ciò aumenta la prossimità con il linguaggio interno, ovvero con quel fenomeno psicologico che consente di percepire internamente e di proporre esternamente la massima espressività emotiva: «Anche la scelta delle inquadrature ha un corrispettivo nel linguaggio interno. Si riservano i dettagli e i primi piani a quelle parti del mondo reale che vengono percepite come più importanti, o cariche simbolicamente dei più ampi significati» (Angelini, 1992, p. 154).
Ejzenštejn ritiene che il monologo interno, che nel montaggio può essere considerato un modo in cui si esprime il linguaggio interno vygotskijano, sia la massima peculiarità espressiva dell’arte cinematografica:
«Solo il cinema possiede un mezzo per rappresentare in modo adeguato l’intero svolgimento del pensiero in una mente turbata. Anche quando la letteratura ci riesce (…) la cosa più brillante riuscita in questo campo sono stati gli immortali “monologhi interiori” di Leopold Bloom nell’Ulysses [Joyce, 1922]. Quando Joyce e io c’incontrammo a Parigi, egli s’interessò vivamente ai miei piani per il monologo interiore filmato, al quale s’apre un campo assai più ampio di quello concesso dalla letteratura. (…) Il “monologo interiore” come mezzo letterario per abolire la distinzione tra soggetto e oggetto (…) è stato scoperto in esperimenti letterari. (…) “Scivolare” dall’oggettivo al soggettivo e viceversa (…). Come metodo soltanto nel cinema però può avere la sua completa espressione. Perché soltanto il film sonoro è in grado di ricostruire tutte le fasi e tutti gli elementi specifici del corso del pensiero (…). Come se presentassero nell’interno dei personaggi l’intimo gioco, il conflitto dei dubbi, l’esplosione della passione, la voce della ragione (…). Com’è affascinante seguire il flusso del proprio pensiero (…). La sintassi del discorso interno distinto dal discorso esterno. Le palpitanti parole interne che corrispondono alle immagini visive. (…) Ascoltare e studiare allo scopo di comprendere le leggi strutturali e fonderle nella costruzione di un monologo interiore. (…) Diventa ovvio che il materiale del cinema sonoro non è il dialogo. Il vero materiale del cinema sonoro è naturalmente il monologo. (…) La forma del montaggio, in quanto struttura, è una ricostruzione delle leggi del processo del pensiero» (Ejzenštejn, 1935, pp. 94-96, corsivi nell’originale).
Non si trascuri il fatto che il contenuto concettuale è, per Ejzenštejn, sia affettivo sia ideologico. Questa necessità per il cinema, come eccellenza tra le arti, di tenere insieme dialetticamente forze opposte è analoga allo sforzo del linguaggio interno. Esso infatti si colloca, nella mente, in rapporto dialettico fra l’emozione e la volontà dalle quali è motivato e l’espressione verbale da cui è reso manifesto. L’opera d’arte deve rispondere agli strumenti espressivi del linguaggio interno e il cinema non solo è «la più avanzata delle arti», ma «il metodo del cinema, quando sia veramente ben compreso, ci permetterà di conoscere il metodo dell’arte in generale» (Ejzenštejn, 1935, p. 171).
Volendo rispettare questi propositi, nella concretezza del suo lavoro Ejzenštejn fu spontaneamente sempre vicino alle idee psicoanalitiche. Ha scritto Etkind (1933): «Sciopero, Ottobre e La corazzata Potëmkin sono pieni di scene di panico e di violenze di massa; scene che avrebbero potuto essere usate, come illustrazioni, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io [Freud, 1921] (con cui Ejzenštejn deve aver avuto familiarità), se non altro per il tono conflittuale con cui vennero girate. A differenza di Freud, Ejzenštejn non provava alcuna avversione per l’ipnosi di massa; al contrario, si sentì attratto dall’idea di fondersi nella moltitudine» (p. 319).
Anche negli Stati Uniti, il regista ebbe una limitata esperienza personale di tipo psicoanalitico, come era avvenuto precedentemente in Russia con Aron Zalkind. Negli USA, a Hollywood, egli cercò l’aiuto di uno psicoanalista. Su indicazione di Charlie Chaplin, venne contattato il dottor Cecil Reynolds. L’intento consisteva nel tentativo di superare le difficoltà sorte durante la progettazione di un film a cui il regista lavorava da anni ma che non fu portato a termine: La casa di vetro (Glass House). In quel periodo il regista era accompagnato da Ivor Montagu, anch’egli personaggio interessante nella storia del cinema, che si occupava della produzione e del montaggio delle riprese. Quest’ultimo fu turbato, quando Ejzenštejn «iniziò a spendere ore – e denaro – seduto col dottor Reynolds sulla veranda della nostra villa, facendo l’analisi per scoprire l’ostacolo che gli impediva (…) di pensare alla storia de La casa di vetro» (Montagu, 1968, p. 105). Questa era solo l’opinione di Montagu, ma non venne fuori nulla da queste sedute. Va detto che egli considerava il lavoro di Ejzenštejn La casa di vetro una idea fissa, o addirittura una sorta di dipendenza. Il film si basava sulla novella di Evgenij I. Zamjatin (1919-21) Noi, e voleva descrivere un mondo trasparente, dove le case erano trasparenti, senza pareti a nascondere gli eventi, in cui gli abitanti non percepivano la trasparenza e vivevano come se le pareti fossero state opache. Per inciso, in un diverso contesto drammaturgico, l’idea è stata riproposta nel 2003 da Lars von Trier nel film Dogville. In quest’opera, le strade e le case del paese, compresi gli interni, sono state indicate con righe bianche tracciate per terra, senza muri, porte e con scarni arredi. Di fatto Ejzenštejn, nel girare una versione hollywoodiana della novella di Zamjatin, avrebbe realizzato una satira del paradiso socialista, esprimendo la forte resistenza di un uomo contro la società di massa che lo aveva privato della sua individualità e del sentimento dell’amore. Era il segnale di una faticosa reazione del regista contro le distorsioni e gli errori del mondo sovietico. Il creatore di Ottobre e de La corazzata Potëmkin voleva approfittare della sua permanenza all’estero per esprimere un nuovo atteggiamento, più critico, nei confronti del regime vigente nella sua terra natale. L’ambivalenza interna che ne derivò fu così intensa da provocare un blocco artistico. La reazione d’inibizione probabilmente non era tanto dovuta alla lotta contro la nostalgia di casa quanto alla necessità di abbracciare una nuova e problematica visione di se stesso e del mondo sovietico. Possiamo immaginare la miscela scoraggiante di energia creativa, paura del regime, idee confuse e devozione agli ideali con cui il dottor Reynolds, in ascolto del suo paziente, dovette confrontarsi sulla veranda di quella villa in California.
L’arte per Ejzenštejn, nell’espressione e nello studio, era collocata all’interno di una fortissima tensione etica. Come molti della sua generazione, sia artisti, sia scienziati, sia psicoanalisti, credeva generosamente, con gli strumenti del suo lavoro, di poter cambiare il mondo. In ciò si sentiva supportato dagli efficienti strumenti che la ricchezza scientifica e culturale del primo Novecento offriva. Tra questi strumenti utili al progresso, la psicoanalisi era considerata uno dei più capaci e trasformativi. Non a caso, questo desiderio, solo apparentemente ingenuo, di poter cambiare il mondo fu condiviso da molti psicoanalisti della seconda generazione nel contesto europeo. Alcuni di loro, tra i più giovani, erano in contatto con la realtà sovietica e si impegnarono concretamente in prima persona in questa impresa attraversata da venature romantiche. È il caso di Otto Fenichel, Wilhelm e Annie Reich, Helene Deutsch, Erich Fromm, Edith Jacobson, Siegfried Bernfeld e altri, tutti affascinati dal sogno sovietico (Angelini, 2009 p. 16, 2019 p. 11). Costoro furono sostenitori storici di questa spinta ideale che vedeva nella psicoanalisi un mezzo per rinnovare la società. Diversi fra questi protagonisti del movimento psicoanalitico di allora erano amicizie o frequentazioni del regista.
Analogamente, in tale prospettiva la produzione artistica di Ejzenštejn voleva costituire un fattore di cambiamento propulsivo rispetto al mondo sociale. L’impegno nell’arte per lui rappresentava prima di tutto un mezzo per costruire l’“uomo nuovo” sovietico e trasformare la società dalle fondamenta. L’orizzonte di questo progetto aveva gli stessi confini della rivoluzione d’ottobre. Come molti intellettuali, psicoanalisti e artisti della sua stessa generazione, Ejzenštejn fu portatore, nella stagione giovane della sua vita, di un grande entusiasmo civile. Egli sperava, con fermezza, che il cinema e l’arte in genere potessero migliorare idealmente e storicamente l’intero arco dell’esperienza umana.
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* Ringrazio Andrea Lena Corritore che mi ha consentito la lettura e la citazione di alcuni suoi testi non ancora pubblicati. L’autore non dichiara alcun conflitto di interesse.
Ricevuto il 27 dicembre 2019 e accettato, dopo revisioni, il 23 febbraio 2020.
** Alberto Angelini, Via Costabella 26, 00195 Roma. E-mail <albertoangelini10@gmail.com>, tel. 339-3974371.
Psicoterapia e Scienze Umane, 2020, 54 (2): DOI: 10.3280/PU2020-002002
www.psicoterapiaescienzeumane.it. ISSN 03942864 – eISSN 1972-5043
* Per una bibliografia generale su Sergej M. Ejzenštejn si rimanda a Cervini (2010). In tempi più recenti, Kleiman & Somaini (2016) hanno proposto una bibliografia aggiornata ed estesa. Riguardo a Lev S. Vygotskij, una bibliografia completa e approfondita si trova, come appendice, in Mecacci (2017).