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The Reader – 2009
Eidos cinema e psyche, 14
In una fondamentale opera pubblicata originariamente nel 1963, La banalità del male, una filosofa contemporanea, Hannah Arendt argomenta sull’intrinseca debolezza della cosiddetta, aristotelica, “vita buona”; sempre assediata dall’incertezza della sorte e dalla prepotenza di fattori che esulano dalla ragione. Ella, più che riflettere sulla costitutiva caducità del bene, si sofferma sulle qualità semplici e banali del male e quindi sulla inesplicabilità del medesimo. Fragilità del bene e banalità del male sono due aspetti che si integrano l’uno con l’altro.
In primo luogo, ciò che chiamiamo bene e ciò che definiamo male non si manifestano in forme “assolute”, non si esprimono univocamente. Essi risultano piuttosto da una miscela, da un impasto nel quale si fondono elementi diversi. Illusorio pensare che possa realizzarsi compiutamente la “vita buona”; troppo numerosi e condizionanti sono gli impedimenti che ad essa oppongono la sorte e le passioni.
Non meno infondato – questo è il messaggio fondamentale del film the Reader – è credere di poter individuare l’origine specifica del male e di riuscire a distinguerlo infallibilmente da altri moventi. Se ciò fosse possibile, se potessimo riconoscere con sicurezza il male, lo potremmo anche isolare e magari estromettere dalla vita sociale. Il protagonista, Michael, nella prima parte del film alla soglia dei sedici anni, vive una intensa storia d’amore e di sesso con una donna più adulta. Ella gradisce molto che le vengano letti i grandi classici a voce alta e nasconde due segreti: è stata una sorvegliante delle SS tedesche e, cosa di cui si vergogna enormemente, è analfabeta; per cui, ogni volta che le viene offerta una opportunità o una promozione che comporterebbe il leggere e lo scrivere, rifiuta e scompare. E’ ciò che accade dopo una intensa estate d’amore passata con il ragazzo. Quest’ultimo, dopo otto anni, apprenderà traumaticamente di essersi, per la prima volta, innamorato di una donna che, con il suo operato, aveva causato la morte di centinaia di persone.
Allo spettatore è riservata la medesima sorpresa. Nulla, nella prima parte del film, lascia intuire le terribili caratteristiche personali e storiche della donna. Costei appare, al di là della sua bellezza metaforicamente edipica, assolutamente normale, anzi “banale”. Hanna, la protagonista, appartiene a quell’umanità opaca che, per qualsiasi ragione e in qualunque momento della storia umana, può scivolare inconsapevolmente nella dimensione dell’orribile, pur di non uscire dai propri limiti. Sulle sue responsabilità verranno spese molte parole, attraverso i ragionamenti del professore di diritto di Michel. Ma, a prescindere dalla legge, perché ella non percepisce il male? Dov’è in lei la colpa? La domanda risuona in più passaggi del film e nella mente degli spettatori. Il personaggio Hanna è il simbolo della condizione psicologica e morale della Germania durante il nazismo. L’analfabetismo che non riesce a confessare può essere letto, a livello metaforico, come un “analfabetismo etico”. Esso rappresenta l’incapacità di “leggere” il male da parte dell’intero popolo tedesco nell’epoca hitleriana. Tuttavia Hanna non percepirà mai, internamente, la sua colpa; nemmeno nella tragica conclusione, il suicidio, di una vita passata in carcere.
Riguardo a questa incapacità di pentirsi l’autore, Stephen Daldry, è stato molto riflessivo e alcune voci critiche hanno individuato nell’opera il rischio di banalizzare l’orrore dell’Olocausto. Ma forse l’orrore, al di fuori della storia e nella singola mente dell’individuo, è proprio banale e di rado si manifesta soggettivamente come “fenomeno”.
Se la condizione umana in quanto tale è instabile, perché inesorabilmente esposta ai capricci della sorte; se bene e male non costituiscono affatto una polarità di “stati” mutualmente incompatibili, ma tendono invece a convergere in un intreccio inestricabile, ogni “scandalo” di fronte a questa constatazione dovrà essere rimosso. Nel 1932, in un famoso carteggio dedicato a riflettere sulle cause della guerra, Albert Einstein e Sigmund Freud delinearono, in un contesto differente, un fenomeno analogo. Essi descrissero il Diritto e la violenza come realtà che si sviluppano l’una dall’altra. Ma di fronte all’orrore, per ciascuno di noi, l’atteggiamento del saggio è quasi impossibile. Anche se avvertiti della fragilità del bene e dell’ineluttabilità del male, non possiamo evitare, soggettivamente, l’impatto delle emozioni e dei sentimenti rispetto al fluire delle vicende umane. Parimenti, di fronte al prorompere del male, in tutta la sua radicale insensatezza, non possiamo accettare che ogni tentativo di “spiegazione”, in termini razionali, finisca esposto allo scacco.
E’ questo il destino del protagonista, Michel, che non si darà pace per tutta la vita. Ferito intimamente, per l’intensità del suo primo grande sentimento amoroso, non si separerà edipicamente mai da Hanna. Vivrà nell’incapacità di gestire il rapporto con tutte le altre donne: la ex-moglie, la figlia, le amanti. Inoltre, senza riuscirci, non smetterà mai di cercare di comprendere la mente del suo antico amore. Ma ella, apparentemente, non sentirà in nessun modo il pentimento. Quando, dopo decenni, Michel riuscirà nuovamente a guardarla in viso e, nel carcere, le dirà: “Mi chiedevo cosa hai imparato”, si sentirà rispondere: “Ho imparato a leggere”. Il vero dolore, da parte della donna, verrà solo dall’incomprensione e dalla lontananza di lui, incapace, per quasi tutta la vicenda di incontrarla e di rispondere alle sue lettere.
Per questo, anche il suicidio conclusivo della protagonista non appare come metafora della dimensione storica. Esso ci sospinge piuttosto nel drammatico profondo della mente individuale, che si difende dal potere della storia umana e magari si illude di poterla ignorare.