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Un borghese piccolo piccolo – 2014
Eidos cinema e psyche, 29
di Alberto Angelini
Ha scritto Søren Kierkegaard: “I piccoli borghesi saltano sempre un momento nella vita, da qui il loro rapporto parodico rispetto a quelli che sono sopra di essi…..La loro morale è un breve riassunto di diversi obbiettivi amministrativi…..Non hanno mai sentito quella nostalgia di qualcosa di sconosciuto, non hanno mai percepito quella profondità che consiste nel non essere niente, nell’uscire dalla città per la porta di Nørrebro (quartiere di Copenaghen) con due soldi in tasca e un povero giunco in mano”.
Anche se la borghesia cui si riferiva, nell’ottocento, il filosofo danese era, allora, una classe veramente ricca e in ascesa, differente dall’angusta borghesia europea del secondo novecento, questa riflessione ben si adatta, psicologicamente, al modesto personaggio di Giovanni Vivaldi, protagonista di Un borghese piccolo piccolo. Egli, diligente impiegato ministeriale, di grado esecutivo, alle soglie della pensione, ha un unico desiderio: fare assumere il figlio Mario, neo diplomato, nel suo stesso ministero, dove ha prestato servizio per una vita. Nel tentativo di ottenere una raccomandazione per il figlio, Giovanni si iscrive addirittura, con una improbabile cerimonia, ad una loggia massonica e, finalmente, sembrano aprirsi le porte della tanto agognata sistemazione; la felicità entra in casa Vivaldi. Ma il destino ineluttabile non conosce i buoni sentimenti e un rapinatore, una mattina, si trova nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Un colpo di pistola interrompe, tragicamente, i sogni dell’uomo; il figlio rimane ucciso e il dramma prende atto. Quella morte sentenzia la fine di ogni speranza e di ogni possibile futuro. E’ negata, metaforicamente, l’idea stessa della “riproduzione borghese” della società. Da questo momento in poi il film di Monicelli, come del resto l’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami da cui la pellicola è tratta, propongono il dispiegarsi di una vicenda funesta. Essa illustra, non simbolicamente, ma nelle azioni, gli orribili valori interni che, sia il regista, sia lo scrittore, percepiscono, al di là della facciata benpensante, nelle frenetiche trasformazioni sociali della seconda metà del secolo scorso. Monicelli si arrende di fronte alle spietate metamorfosi dell’Italia, negli anni settanta; abbandona il taglio, sferzante ma bonario, della commedia all’italiana e riconduce la condotta umana del suo protagonista nell’ambito degli istinti più ferini.
La psicoanalisi considera gli istinti come schemi di comportamento ereditari, propri di una specie animale. Tra essi l’aggressività che, in determinate circostanze, può divenire violenza selvaggia, per caccia o per vendetta, ma anche senza motivo, si pone come un problema sociale e criminale, quotidianamente. Sono solo i divieti e le regole che la società impone all’individuo, con le conseguenti, possibili, punizioni, a consentire una vita organizzata.
Giovanni Vivaldi travalica ogni limite immergendosi, completamente, nella violenza animalesca. Egli individua e pedina l’assassino di suo figlio; riesce a farlo prigioniero e lo tiene nascosto in un capanno per torturarlo a morte, anche imprecando perché la fine è giunta troppo presto.
Per l’autore, la crudeltà assoluta di questo padre ha il valore di una metafora che esprime la carica di violenza della società italiana di quel periodo. La spensierata ironia della commedia all’italiana degli anni cinquanta e sessanta naufraga nella violenza sociale e politica degli anni settanta. La morte del giovane figlio del protagonista sancisce la morte stessa di una armonia e di un equilibrio sociale, pur sfibrato dal tempo, a cui, tuttavia, ci si riferiva nell’illusione di tornare, un giorno, a goderne i frutti. Il borghese piccolo piccolo esce fuori dal suo anonimato e si pone come agente “restauratore” di una giustizia personale intima, senza legge né ideali. L’unico valore affermato è quello di una vendetta privata, di un regolamento di conti che nulla ha a che vedere con la società, anzi la esclude, meticolosamente, come puntuale negazione del sé sociale.
Parafrasando un termine psicoterapeutico, il film ha un approccio idiografico; ovvero, descrive la storia di un singolo individuo per esprimere, su un piano generale, le caratteristiche di una determinata psicopatologia.
Attraverso la vicenda di Giovanni Vivaldi, è possibile accedere a uno spaccato della profonda crisi, psicologica e sociale, che ha imperversato, nel nostro paese, negli anni di piombo, abbracciando tutto: la politica, le istituzioni, la borghesia, la classe operaia, le scuole, i partiti, i sindacati, nonché una totale perdita di valori che, da allora, ha aperto la strada alla criminalità, alla mafia e alla corruzione. Dietro una apparente e normale esistenza, il protagonista nasconde tutte le debolezze e le paure, ma anche il cinismo e l’egoismo, dell’italiano medio di quegli anni, spinto da una dimensione del sociale, sostanzialmente, assente a ricorrere a pratiche fuori da ogni etica, nella loro elementare violenza.
Se la psicologia può insegnare qualcosa, riguardo agli istinti più primitivi, è che essi non cambiano, nei tempi e nelle geografie. L’intelligenza di una società efficace consiste nell’offrir loro uno spazio, dove possano operare a favore della collettività, piuttosto che contro.